Cronache

Le vittime raccontano: quei lager in Libia tra violenze e torture

Tre aguzzini mescolati ai rifugiati arrestati a Messina: picchiati coi tubi

Le vittime raccontano: quei lager in Libia tra violenze e torture

Torture, abusi sessuali, botte per fare mandare i soldi dai familiari che servivano a pagare la traversata verso l'Italia. I 59 migranti fatti sbarcare in luglio a Lampedusa dalla barca a vela Alex e Co della ong Mediterranea hanno raccontato agli inquirenti la loro odissea. E incastrato tre aguzzini, che si erano bellamente spacciati per rifugiati e avevano trovato un passaggio «umanitario» per l'Italia. La polizia su richiesta della procura di Agrigento li ha fermati nell'hotspot di Messina dove erano ospitati come migranti. Mohamed Condè detto Suarez, 22 anni, nato in Guinea, Hameda Ahmed, 26 anni, e Mahmoud Ashuia, 24 anni, entrambi egiziani sono accusati di associazione per delinquere dedita alla gestione di un illegale centro di prigionia a Zawya, uno dei porti di partenza verso l'Italia. Il lager è ricavato in un capannone all'interno di una ex base militare probabilmente in mano ad una delle 3-4 famiglie che si dividono i traffici illeciti della zona con i propri miliziani.

«Tutte le donne che erano con noi, una volta alloggiate all'interno di quel capannone sono state sistematicamente e ripetutamente violentate dai 2 libici e 3 nigeriani che gestivano la struttura» racconta un testimone. «Non si poteva uscire. Eravamo chiusi a chiave. I due libici e un nigeriano erano armati di fucili mitragliatori, mentre gli altri due nigeriani avevano due bastoni. Le condizioni di vita erano inaudite. Ci davano da bere acqua del mare e, ogni tanto, pane duro» ha spiegato il sopravissuto agli investigatori della squadra mobile di Agrigento.

Non dovrebbe trattarsi del centro di detenzione governativo Al Nasser di Zawya, che non sorge in una ex base militare, ma fra gli aguzzini c'erano uomini in uniforme compreso un certo Mohammed con dei gradi da ufficiale. In quell'area non è facile distinguere militari, poliziotti o miliziani. Zhawya è la base di Abd al Rahman Mila detto Bija. Ex comandante della Guardia costiera locale è ancora un ufficiale del corpo. Molto discusso per le accuse di collusione con i trafficanti di uomini, che mandano i migranti in Italia, era finito nel mirino delle Nazioni Unite. Gli scorsi mesi si è fatto vedere in prima linea al fianco dei governativi contro le truppe del generale Haftar.

I racconti dei migranti fanno pensare ad una struttura utilizzata dai trafficanti con la protezione di miliziani locali. Per liberarli o imbarcarli sui gommoni verso l'Italia li facevano chiamare con il cellulare i parenti che dovevano inviare i soldi via hawala. Per sollecitare i disgraziati pagamenti venivano bastonati con tubi di gomma, cavi d'acciaio e in alcuni casi sono stati torturati con scosse elettriche. Secondo un testimone «la somma richiesta dagli organizzatori in cambio della liberazione di ognuno si aggirava a circa 10.000 dinari libici» appena 200 euro.

I sopravvissuti hanno visto uccidere a colpi di arma da fuoco chi tentava di fuggire dal lager. A un altro migrante che si rifiutava di pagare è stato fratturato un dito con il calcio della pistola. Il capoccia libico, Ossama, era il più spietato. «Sono riuscito ad uscire poiché Mohamed - racconta un testimone - libico dell'Oim (la costola delle migrazioni dell'Onu che smentisce qualsiasi coinvolgimento, ndr), mi ha venduto, forse per 500 dinari, ad un altro libico, tale Shibakshi.

Quest'ultimo mi ha trattato molto bene ed ho lavorato alle sue dipendenze, come bracciante agricolo, fino alla mia partenza verso l'Italia».

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