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Le ricerche nascoste sui malati di sport

Sono poche, semi-clandestine e riguardano tutte le discipline: sci, calcio, ciclismo. Parlano dei danni da affaticamento che colpiscono professionisti ma anche dilettanti. Perché, se si esagera, il corpo presenta il conto

Le ricerche nascoste sui malati di sport

E se, alla fine, fare sport facesse male? Se l'ebbrezza del movimento, di sentirsi vivi ed efficienti, di competere, avesse sull'altro piatto della bilancia danni senza ritorno destinati ad accompagnarci nella vecchiaia quanto (e forse più) delle medaglie impolverate? Se, insomma, avesse ragione Winston Churchill quando diceva che era lo sport il segreto della sua salute: «Non l'ho mai fatto»?

A sollevare pubblicamente l'argomento è stato, poche settimane fa, un ex campione celebre come Gabriel Batistuta: «Non riesco più a camminare». Ma il grido di dolore del Re Leone è rimasto inascoltato, come sotto silenzio passano statistiche agghiaccianti tipo quelle del football americano, con il 95 per cento dei giocatori che sviluppa la Cte, encefalopatia traumatica cronica, ma anche i campanelli d'allarme che arrivano da discipline meno violente. Non è un caso. Il tema dei danni da sport è impopolare e non solo perché confligge con la retorica secolare della mens sana: di mezzo c'è anche un business colossale che coinvolge tanto i produttori di materiale quanto l'intera catena dello sport diffuso, società, tecnici, medici. E poi il Coni, le federazioni, i comitati regionali, la burocrazia che ruota intorno alla passione crescente per l'attività fisica. La versione ufficiale, le poche volte che il tema viene sollevato, è sempre la stessa: si nega semplicemente che il fenomeno esista, o lo si confina a casi isolati, eccessi, irresponsabilità.

La realtà, purtroppo, è diversa. Gli studi epidemiologici sono pochi e semiclandestini. Ma ci sono le storie, tante. E c'è il catalogo delle patologie che i medici conoscono bene: ogni sport ha la sua, che affligge atleti qualunque e grandi campioni, ma non se ne parla. Quanti conoscono i danni cerebrali che i colpi di testa procurano ai piccoli calciatori? Quali statistiche raccontano le lesioni alla colonna vertebrale che accompagnano a vita gli ex rugbisti? Quanti giocatori di pallanuoto hanno le anche ancora sane? E via di questo passo, ogni sport con la sua croce addosso.

C'è chi facendo sport ci lascia la pelle, e sono fortunatamente casi isolati. C'è chi subisce infortuni gravi: e qui i numeri aumentano, soprattutto in alcune discipline, ma possono anch'essi venire considerati fisiologici, d'altronde non vi sono attività umane prive di rischi. Contro i traumi acuti lo sport interviene con contromisure come l'obbligo del casco per i ciclisti o il cambiamento delle regole di ingaggio della mischia per il rugby. Ma poi c'è il dato sterminato e occulto dei danni permanenti e irreversibili, così diffusi da essere un fenomeno di massa. Lo sport intenso fa male, dicono questi dati. Fa male a tutti i livelli, dal dilettante al professionista, tutti spinti - per motivi diversi - a portare sempre più in alto la sfida ai propri limiti: per soldi, per carriera, per furia agonistica, per misurarsi con gli amici e con se stessi. Inesorabile, presto o tardi il corpo presenta il conto. Perché, come spiegano gli antropologi, il nostro scheletro non è fatto per la postura eretta: figurarsi se è fatto per impattare migliaia di volte su una cunetta a centoquaranta chilometri orari come fanno gli sciatori della discesa libera.

Ogni tanto qualcosa salta fuori. Nel 2015 il New York Times raccoglie i pochi dati disponibili sui danni al cervello delle giocatrici di hockey. Raccoglie testimonianze impressionanti di ragazze con la carriera finita a ventitré anni per i traumi a ripetizione, pubblica i ricordi di Paige Decker, da due anni alla ricerca di un rimedio qualunque per alleviare gli insopportabili dolori ai nervi e ai muscoli che l'hanno costretta a lasciare anche il lavoro. E racconta soprattutto dell'omertà che circonda il tema: di tutti i college interpellati per l'inchiesta solo due rispondono fornendo i dati richiesti. Digit Murphy, allenatrice di hockey, racconta che «quando lo sport diventa un business, tutto ciò che può diventare un problema smette di essere discusso».

Il business certamente svolge un ruolo nell'occultare i traumi: l'atleta superpagato è spinto, anche da se stesso, a nascondere i sintomi. Ma lo stesso accade nei piani poveri dello sport, dove comunque la pressione ad andare avanti, sempre e comunque, è assillante. Così, se a un estremo c'è un calciatore superpagato come Gabriel Batistuta che ammette «ho rovinato la mia salute per il calcio» (e parliamo di un giocatore che in carriera non ha mai subito gravi infortuni), ancora più angosciante è l'intervista rilasciata dalla campionessa di uno sport povero come la pallanuoto femminile, Elena Gigli, ex portiere della Nazionale, che racconta un calvario iniziato con i guai all'anca, malattia classica di tutti i pallanotisti: «Ho iniziato a esprimere il mio disagio a chi mi seguiva come atleta: allenatori, fisioterapisti, medici, eccetera. La risposta era sempre la stessa: tutti abbiamo un lato debole, la tua sensazione è solo mentale. E comunque pari bene, sei in forma».

«Pari bene», «sei in forma»: ma dietro cosa c'è? Nel 2014, l'università di Londra realizza una ricerca sull'incidenza dell'impotenza, della sterilità e dei tumori alla prostata tra i ciclisti. Quando la ricerca viene diffusa, i media specializzati si concentrano solo sulle prime due risposte fornite dalla ricerca, che non trovano relazione statistica tra ciclismo e problemi sessuali. Tutto bene, insomma. Ma si dimenticano di citare la terza risposta, che invece individua un aumento drammatico dei tumori alla prostata a partire dalle 3,75 ore di pedalate alla settimana: un ritmo da cicloamatori.

In Inghilterra, dopo la morte per una forma degenerativa del calciatore Jeff Astle, la Football Association ha varato un programma per analizzare i disturbi causati al cervello dei giocatori dall'impatto ripetuto della scatola cranica con palloni, spesso provenienti da grandi altezze o (soprattutto durante i calci di punizione) calciati a velocità elevate. I risultati non sono noti, ma intanto il Guardian pubblica le autopsie su sei calciatori professionisti morti dopo anni di demenza: «I risultati della nostra ricerca mostrano un potenziale legame tra i ripetuti impatti della testa con il pallone e lo svilupparsi della encefalopatia traumatica cronica», spiega uno degli autori. L'ex calciatore del Leicester Iwan Roberts lancia una campagna per proibire i colpi di testa almeno tra i «pulcini», ma viene stoppato dalla federazione gallese: «Prima di compiere un passo del genere converrebbe avere informazioni più ampie». Ma, intanto, in America i colpi di testa vengono proibiti per i calciatori sotto i dieci anni di età. Sempre in America, si analizza da tempo l'alta incidenza tra gli sportivi della Mrsa, lo staffilococco resistente agli antibiotici, diffuso soprattutto tra le discipline ad alto contatto fisico come la lotta e il football, ma anche nel volley, nel basket, nel baseball, praticamente ovunque: ma in Europa non se ne parla. E gli stessi medici ortopedici, che si trovano quotidianamente ad affrontare patologie che si possono classificare solo come «usura da sport», non escono allo scoperto.

È una sorta di rimozione collettiva, dove interessi economici si incrociano a meccanismi psicologici complessi da parte degli atleti: e che forse vanno ricompresi in quella che Bill Morgan ha definito «dipendenza da sport», «una attività fisica estrema sia in frequenza che in intensità, segnata da una irresistibile coazione alla prestazione e da possibili crisi di astinenza».

E, in fondo, questi drammi sono assai contemporanei, figli di una cultura che punta al risultato e non al benessere reale; alla performance e non alla preparazione.

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