Cultura e Spettacoli

Mio padre si raccomandò: "Non farmi fare brutta figura"

L'omicidio del papà generale, la tv, Fabrizio Frizzi: La conduttrice si racconta in «Mi salvo da sola»

Mio padre si raccomandò: "Non farmi fare brutta figura"

Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore Mondadori, un brano da "Mi salvo da sola", memoir di Rita Dalla Chiesa: il ricordo commovente e molto intimo del padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e del tragico momento del suo assassinio (la sera del 3 settembre 1982, a Palermo), il rapporto con Fabrizio Frizzi, la figlia Giulia, il mondo della televisione. "Mi salvo da sola" sarà in libreria a partire da oggi.

di Rita Dalla Chiesa

Blocco la mia macchina all'angolo del fioraio di piazzale degli Eroi. Guardo un cesto di roselline piccolissime rosa, le ho sempre chiamate le roselline dell'amore, chissà perché. Mi rendo conto che ho paura di arrivare al mio appuntamento con Paolo. In fondo mi ha solo chiesto di andare a prendere un gelato con lui, e allora che cavolo ho? Accarezzo il cagnolino di peluche attaccato allo specchietto, che mi ha regalato Giulia. Una mamma ha sempre le antenne a mille, avverte le cose prima ancora che avvengano. Quando a Ferragosto papà mi ha chiesto di mandargli qualche giorno Giulia a Palermo, per fare compagnia a Emanuela, qualcosa mi ha fatto dire un NO secco. Ho detto NO prima ancora che avessi avuto il tempo di prendere uno straccio di decisione. Un NO che mi è uscito dalla pancia, e che lo ha ferito. Me ne sono accorta da come mi ha guardata. È stato un NO per la vita di Giulia. Quel NO l'ha salvata. Se Giulia fosse stata in macchina con loro, quella sera, avrebbero ucciso pure lei, maledetti assassini.

Rimetto in moto e arrivo a piazzale Clodio. I pensieri mi martellano nella testa, a raffica. Come fulmini che entrano direttamente dal finestrino abbassato della macchina. Continuo a pensare alla telefonata di papà di stamattina e a questi dieci giorni in cui non ci siamo sentiti. Nemmeno il 31 agosto, per il mio compleanno. Non era mai successo, è sempre stato lui il primo a farmi gli auguri. Invece, quel giorno, niente. Solo verso sera mi aveva chiamata Emanuela, anche se intuivo che ci fosse pure papà vicino a lei. Zitto, muto, era offeso con me. Una settimana dopo mi sarebbe arrivato il loro regalo, una bellissima camicia da notte in seta rosa. Che è ancora lì, nascosta in un angolo del mio armadio. Nessuno può immaginare cosa significhi aprire una scatola con un grande fiocco turchese e leggere un bigliettino scritto da due persone che non ci sono più. Che tre giorni prima hanno ammazzato. Soprattutto se una delle due persone è tuo padre.

Ma quanto dura questo semaforo di via Teulada? Adesso ho fretta di arrivare, ho bisogno dell'abbraccio di Paolo, del fumo della sua sigaretta, sto pensando troppo. Forse mi sto facendo dei film in testa, ho sempre avuto paura che a mio padre succedesse qualcosa. L'altra notte ho fatto un sogno orribile, ero a Napoli, sentivo sparare, aprivo gli scuri verdi di una finestra e vedevo del sangue in mezzo alla strada. Ma che c'entra papà con quel sogno? Forse davvero non c'è niente di strano, magari Paolo vuole solo mangiare un gelato. E poi papà l'ho sentito stamattina, mi ha telefonato per cancellare il mio NO di Ferragosto. Era allegro. «Buongiorno, signora Rita. Qui è la prefettura di Palermo. Le passo il signor prefetto». «Ciao, papà, finalmente... come stai? Sei più sereno? Ho visto al tg che ieri è venuto giù a Palermo il ministro Formica».

Papà voleva poter controllare i conti sospetti dei mafiosi attraverso la trasparenza nelle banche. Ne aveva parlato con Rino Formica il giorno prima. In quei pochissimi giorni passati tutti insieme nella casa di campagna, vicino Avellino, l'ho sentito più volte cercare di mettersi in contatto per telefono con quelli che l'hanno mandato a Palermo. Ministri e vicepresidenti del Consiglio. «Le diamo tutti gli uomini che vuole» gli hanno promesso, «ma lei deve fare con la mafia quello che ha fatto con le Brigate Rosse. Sconfiggerla». Ma come la sconfiggi la mafia, con le scartoffie burocratiche che ti impediscono di farti arrivare i superpoteri di cui parlavano tutti i giornali? Ma quali superpoteri? Dove sono finiti? In quei giorni di agosto si era accorto che lo avevano fregato. E lo ha detto, senza mezzi termini, a Giorgio Bocca, in un'intervista diventata storia. La mafia uccide quando si accorge che ti hanno lasciato solo. Aveva ragione chi mi diceva, quando fu nominato prefetto di Palermo: «Stanno mandando tuo padre a morire». Gli hanno dato in dotazione una scassatissima 500 per correre sul circuito di Montecarlo. I mafiosi in Ferrari, e lui con le armi giocattolo. I mafiosi al sicuro, e lui che va nelle scuole per insegnare ai ragazzi che i loro diritti non passano attraverso le raccomandazioni degli amici degli amici. Gli studenti, da lui, assorbono il valore della legalità, e papà è costretto a fare lo slalom fra i mille sgambetti di chi cerca di bloccarlo. Non piace questo suo rapporto con i giovani. È pericoloso per gli equilibri precostituiti. Non piace neanche agli alti vertici dell'Arma dei Carabinieri. Che, infatti, stasera non si sono visti né sentiti.

Ingrano la prima. Papà, nella sua telefonata di stamattina, mi chiede del mio lavoro, si informa sugli esami da giornalista professionista che fra poco devo affrontare. Gli scritti li ho già superati. Adesso devo fare gli orali. Mi dice: «Mi raccomando, Topino, studia, non farmi fare brutta figura». Le sue ultime parole della nostra vita insieme. E il tono della sua voce, quel suo Topino, è l'unico sorriso che la mente mi strappa in quell'andare verso via Teulada. Con questo affanno sospeso fra cuore e pancia. Arrivo davanti alla Rai, vedo Paolo che mi viene incontro, la giacca tenuta con un dito sulla spalla, ha il viso strano, ma non è che le altre volte sprizzi allegria. Però ha uno sguardo che non mi convince, sfugge il mio. Sale in macchina, e mi accarezza i capelli senza dire una parola. Mi chiede solo: «Vuoi che guidi io?». E io, senza rispondergli, senza dirgli nemmeno un ciao, rimetto in moto e mi dirigo automaticamente verso il luogo di Roma che amo di più. Il Giardino degli Aranci, all'Aventino. Attraversiamo in silenzio i vialetti bui, e poi, affacciata al parapetto sul Lungotevere, con Paolo che non mi perde di vista un attimo, butto fuori tutto il mio dolore. Lo butto sui tetti di Roma, ma non piango. Sono come incapsulata nel silenzio di un urlo che dura ormai da tutta una vita. E senza che nessuno mi abbia detto niente, capisco da sola che hanno ucciso mio padre.

Mentre io guardavo un film sdraiata sul divano del soggiorno, mio padre moriva.

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