Cultura e Spettacoli

Il comunismo piccolo piccolo di Piccolo

Vi siete mai chiesti come erano quelli di sinistra da piccoli? I cosiddetti scrittori «impegnati»? Io me lo sono chiesto spesso: mentre guardavo Star Trek e Casa Keaton e piangevo per la morte di Anthony di Candy Candy e di notte sognavo Edwige Fenech e di giorno che un giorno sarei diventato Batman, cosa facevano i bambini di sinistra? La risposta ce la dà Francesco Piccolo in uno strepitoso libro pubblicato da Einaudi e intitolato Il desiderio di essere come tutti: è l'autobiografia di Piccolo che diventa comunista.
Tutto inizia quando Piccolo era veramente piccolo, cioè esattamente il 22 gennaio 1974, a dieci anni, guardando una partita di calcio: quel giorno scopre che esistono due germanie, quella dell'Est e quella dell'Ovest. Uno qualsiasi sarebbe diventato ancora più filoamericano, mentre il piccolo Piccolo diventa comunista. A dieci anni. Un enfant prodige al contrario, ma comunque un enfant prodige. A un certo punto il piccolo Piccolo a scuola si innamora di una ragazzina e le porta un regalo di San Valentino e la ragazzina glielo ributta in faccia perché lei è più comunista di lui, San Valentino una festa capitalista: ma in quale merda di scuola hanno mandato Piccolo i genitori di Piccolo?
Non c'è niente da ridere, è una storia drammatica e ci sono congetture perfino sul caso Moro, quando il piccolo Piccolo aveva quattordici anni, e anziché pensare di diventare Batman come me voleva essere Berlinguer, anzi afferma: «Io sono diventato Enrico Berlinguer». Gli chiedevi come si chiamava e lui rispondeva Berlinguer.
Finché il piccolo Piccolo cresce e diventa uno scrittore comunista e comincia a scrivere su giornali comunisti che gli chiedono di dire le cose giuste. Tipo gli immigrati naufragavano e Piccolo scriveva che era meglio non naufragassero. Una donna era violentata e Piccolo scriveva che era orribile violentare le donne.
Ti aspetti che il piccolo Piccolo cresca e diventi adulto e ammetta: quanto siamo stati coglioni. Invece il resto del libro si dedica a Berlusconi, perché «ha modificato i criteri di razionalità in questo Paese» rendendoci più stupidi, più cattivi, più egoisti e dilungandosi con un'altra cinquantina di pagine di pensieri fissi su Berlusconi, pur restando Berlinguer. Con momenti di profonda autocoscienza autobiografica, come quando Piccolo afferma: «La superficialità mi ha generato, e poi me la sono sposata; prima me la sono trovata in casa, poi me la sono cercata». La superficialità però non è lui ma sarebbero sua madre e sua moglie, e quest'ultima al contrario di Piccolo sembra una signora simpatica che non crede di essere Berlinguer e lui soprannomina “Chesaramai”, in quanto lei gli risponde in continuazione «Che sarà mai», e da qui si capisce cosa questa povera donna deve aver passato. È lei la vera vittima del libro, pensi al momento. Ma poi pensi che d'altra parte Piccolo l'ha sposato lei, cazzi suoi.
Alla fine comunque la morale della favola è che piccolo era buono e comunista fin da Piccolo, ce l'ha messa tutta, e adesso che è grande dice: «Sono una persona di sinistra, voterò per tutta la vita il partito di sinistra che cercherà di governare secondo i criteri del compromesso e della collaborazione». Ti viene da piangere. E non se andrà mai all'estero, perché «anche se le cose peggiorano, sono interessanti - addirittura più interessanti. E voglio restare qui a viverle, a guardarle, e a provare a raccontarle». Insomma, Piccolo è davvero un piccolo grande uomo, io ne sono scosso e commosso. Ti viene da pensare a Dostoevskij, il quale riteneva L'idiota un romanzo fallito sostenendo non si potesse scrivere un romanzo interessante su un uomo buono.

Invece Piccolo, il piccolo Piccolo, il sensibile Piccolo, questo Piccolo principe triste di sinistra che presto diventa un piccolo Berlinguer, attraverso se stesso ha scritto il romanzo della sua generazione, una storia emblematica e generazionale e umanamente triste in cui dimostra che Dostoevskij si sbagliava.

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