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I 7 superstiti della città incantata che ogni giorno rischia di morire

Civita di Bagnoregio è immortalata nei film, amata da registi e stranieri. Ma è fatta d'argilla e le frane potrebbero cancellarla

I 7 superstiti della città incantata che ogni giorno rischia di morire

da Civita di Bagnoregio (VT)

Il ponte è sottile come un velo di carta a guardarlo da un chilometro di distanza. Sembra che scivoli verso il basso e poi si impenni flessuoso verso la città tra le nuvole, il castello sospeso nel cielo. Così l'ha disegnato il regista giapponese Hayao Miyazaki nel suo film di animazione «La città incantata», strepitoso successo mondiale e soprattutto nipponico del 2001, che ha fatto lievitare il flusso di orientali verso questo splendore di tufo, un borgo sempre più piccolo costruito su una rocca che si sgretola giorno dopo giorno circondata da calanchi bianchi come spuma marina e collegato alla civiltà da un ponte di cemento dove si può transitare solo a piedi. Civita di Bagnoregio o «la città che muore» come viene chiamata meno romanticamente in Italia, perché ha fondamenta delicate di argilla e sabbia, memorie di un mare di un milione di anni fa, conta all'anagrafe sette residenti e al botteghino 630mila visitatori nel 2015, di cui sempre di più giapponesi.

Provincia di Viterbo, frazione di Bagnoregio da cui dista un paio di chilometri, mezz'ora a piedi, Civita è in realtà più viva di tutto ciò che le sta intorno: Tarquinia, culla etrusca e patrimonio Unesco, raccoglie meno di un quinto dei visitatori. Eppure la città incantata, un pugno di case di epoca medievale e un labirinto sotterraneo di grotte preromane, diventa sempre più stretta, instabile, delicata a ogni sussulto della natura per l'inesorabile erosione della roccia. Senza interventi di messa in sicurezza a lungo termine, secondo le leggi della geologia potrebbe scomparire, come il mare e il vulcano che l'hanno preceduta. Per questo alla fine ci vivono solo in sette, quelli che resistono: alla paura del destino e alla scomodità di dipendere da quell'unico collegamento con la terra, il ponte che sembra di carta. «Lì di fronte - ci racconta Ivana, una dei sette abitanti di Civita, dal suo negozio di souvenir appena dopo Porta di Santa Maria, l'ingresso del paese giocavamo con le bambole. Fingevamo che era la nostra cucina. Un giorno quel pezzo di roccia è venuto giù». Sparita la cucina delle bambole, come quaranta metri di paese, venti di qua e venti di là, dal dopoguerra a oggi. Centotrentaquattro frane documentate dal quindicesimo secolo, quaranta metri di sella, la salita che conduce alla città, persi in tre secoli e mezzo, ottanta dai tempi di San Bonaventura, che qui nacque, bambino malato prima di essere miracolato da San Francesco. Per questo non esiste più una strada che porta al borgo, e lo strumento urbanistico di collegamento con la terra è appunto il ponte, che nei giorni di foschia sembra davvero spuntare dalle nuvole. Silenzio e scompiglio, il nulla e una folla asfissiante. Questa è Civita: le notti d'inverno solo i sette abitanti rimangono come sentinelle a presidio di un borgo dove ogni passo rintocca, di giorno la furia dei turisti.

Entrare in paese costa meno di una Coca Cola, un euro e cinquanta. Accanto alla casetta di legno del dazio è appesa una petizione all'Unesco, con la firma di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio: «Civita è sola nel difendersi dalle calamità naturali». Segno che i fondi non ci sono o non bastano. Ci sono stati troppi interventi spot: 200mila euro di qua, altri di là, tutti per rattoppare i danni dei crolli. Questa è anche una zona a rischio sismico.

Tra i vicoli della città etrusca, romana e medievale persa tra le nuvole si può incontrare Tony, uno dei sette che resistono in paese, americano qui da oltre cinquant'anni dopo che la moglie, professoressa di architettura a Seattle, comprò la prima casa e portò nei calanchi i suoi borsisti più talentuosi. Oppure il regista Giuseppe Tornatore, non residente ma villeggiante impegnato, che in questo angolo si chiude a scrivere i suoi film. Un altro habituè, ma non residente, è lo psichiatra Paolo Crepet. Il più giovane tra i sette abitanti fissi è Maurizio Rocchi, che gestisce con la famiglia il ristorante Alma Civita di via della Provvidenza, un pezzo di torre di guardia ancora in vista, quando Civita era sede vescovile. «La paura non è il sentimento predominante ci spiega . Ti concentri su cose diversamente importanti, sull'essenziale». «Ora però avete tutto, prima non c'era niente», sorride Sandro, il padre, classe '44. «Un tempo vivevi con quello che producevi nella campagna, non avevi frigo, non avevi televisione. Il festival di Sanremo andavamo a vederlo a Bagnoregio». La radio ce l'aveva solo il prete.

Una vita vissuta nella città che muore, ma ai Rocchi non piace chiamarla così: «Qualche pezzetto ogni tanto casca ammette Sandro -. Ma uno nemmeno ci fa caso. Il terremoto del 1595, invece, ha dimezzato il paese. Quando c'era il terremoto si scappava nelle grotte. Qui sotto il 90% è vuoto». Il paese è stato costruito con la sua stessa pietra. Instabile e cavo nelle fondamenta.

Appena fuori da via della Provvidenza, vengono incontro frotte di orientali. «Sono almeno il 20%, più di 100mila l'anno», calcola il sindaco di Bagnoregio, Francesco Bigiotti. Con parcheggi e museo le entrate annuali a un rapido conto superano il mezzo milione. Un'enormità per una frazione di sette abitanti. Ma il beneficio è per il Comune: «Abbiamo la più bassa pressione fiscale d'Italia». Quello che resta si concentra nella manutenzione ordinaria di Civita: più trasporti per i rifornimenti, un presidio medico, due cicli di pulizia giornalieri. E gli interventi straordinari? «Il versante nord è ben consolidato. E le istituzioni non ci trascurano, anzi». Quando c'è una frana i soldi comunque arrivano. Ma quello che manca è la prevenzione. A Civita servirebbe una legge speciale, come Orvieto e Todi. Un piano quinquennale da un milione mezzo di euro per cinque anni, per una messa in sicurezza totale della rocca. C'è il problema degli alberi, spiega per il geologo Giovanni Maria Di Buduo, che gestisce il Museo Geologico e delle Frane di palazzo Alemanni. Deleteri «con il tufo, allargano le fratture». Andrebbero quindi abbattuti. La sentieristica intorno a Civita sarebbe tutta da sistemare, la vegetazione copre in parte i percorsi, e un avviso di divieto in una galleria scavata dalla roccia viene ignorato.

Alle sette di sera si diradano gli ombrellini antisole del Giappone e Civita affonda nel suo incanto. «La mattina presto ci dice l'Ivana dei souvenir alla sei esco di casa nel silenzio, solo noi. Rimaniamo a vivere qui per quei momenti.

È questa la mia Civita».

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