Cultura e Spettacoli

"Ritorno alla fiction per raccontare il viaggio nella malattia"

Il protagonista de "La linea verticale" su Raitre: "Tema difficile, ma lo trattiamo con leggerezza"

"Ritorno alla fiction per raccontare il viaggio nella malattia"

Un uomo qualunque (di lui non sappiamo nulla: né nome, né professione, né età) scopre all'improvviso di avere un tumore. La sua vita cambia di colpo. «E si trasforma in un viaggio dentro la malattia. Ansie, speranze, lacrime. E qualche sorriso. Tutte le sicurezze sono diventate una continua, irrisolvibile incertezza». Detto così, il personaggio ideale per l'eterno irrequieto Valerio Mastandrea: «Che difatti era l'unico interprete possibile de La linea verticale», conferma Mattia Torre, soggettista, sceneggiatore e regista di otto puntate (in onda dal 6 su Raiplay, e dal 13 su Raitre) che ci immergono, in forma libera, spregiudicata, realistica ma anche onirica, «in quel mondo ospedaliero di cui ognuno di noi, direttamente o meno, ha avuto esperienza.

Perché, Valerio Mastandrea, l'autore dice che lei è l'interprete ideale di questo «viaggio nella malattia»?

«Perché La linea verticale è tratto dal libro in cui lo stesso Torre racconta la propria esperienza ospedaliera. Esperienza che ho profondamente condiviso, essendogli amico fraterno, e che ho rivissuto sul set. Del resto la sua vita e la mia hanno corso su binari paralleli: negli stessi anni abbiamo trovato la compagna, siamo diventati padri, abbiamo perso i nostri padri Quando lui si è ammalato, però, gli ho detto Eh no, questo no».

Che tipo è il malato che voi raccontate?

«Uno strano protagonista. Mai al centro della storia, la osserva piuttosto dal suo letto (la Linea verticale del titolo è quella che si assume quando si sta in piedi, cioè in salute) la racconta quindi cogli occhi, che diventano gli occhi del pubblico. E ci fa incontrare i personaggi-tipo di qualsiasi ospedale: il paziente che pretende di saperne più dei medici (Giorgio Tirabassi), la caposala efficiente e inflessibile (Alvia Reale), il primario carismatico, che per i pazienti è un semidio (Elia Schilton), il prete che predica bene fino a che ad ammalarsi non è proprio lui, e la sua fede vacilla (Paolo Calabresi)».

Non teme che, pur temperato dai toni da commedia, il clima sostanzialmente ansiogeno de La linea verticale possa scoraggiare lo spettatore?

«È un problema che non mi pongo. Anche perché credo che sia solo la seconda volta (dopo Braccialetti rossi) che una storia ospedaliera viene raccontata dal punto di vista del paziente. E poi non conta il tema, ma come viene trattato. Se la gente avrà la fortuna di vedere la prima puntata, seguirà anche le altre».

Eccettuata la sit-com Buttafuori, girata nel 2006 con Marco Giallini, prima di questa lei non aveva mai ceduto alle lusinghe della serialità televisiva. Perché?

«Lo ammetto: all'inizio avevo un pregiudizio artistico verso la tv. E mi dicevo che per interpretare i bio-pic c'erano colleghi più adatti di me. Poi ho capito che la tv, molto più del cinema, può essere lo strumento adatto a raccontare le cose da un diverso punto di vista. Fino ad arrivare a smuovere le coscienze. E mi sono reso conto che è un buon campo dentro cui giocare questa partita».

Oltre che con questa serie, lei festeggia 25 anni di carriera col suo debutto alla regia cinematografica (Ride) e con due film, Tito e gli alieni di Paola Randi, ed Euphoria con Valeria Golino. Come ricorda i suoi inizi?

«Avevo 19 anni. Ero giovane, confuso: facevo Lingue e non parlavo nemmeno l'italiano. Per questo sarò sempre grato a Costanzo: le partecipazioni che per anni feci al suo show funzionarono quasi da sedute psicanalitiche. E non è vero che facilitarono la mia carriera di attore; carriera cui all'inizio, del resto, non pensavo affatto. Al contrario: andavo ai provini e mi dicevano Mbè? E che c'entri tu, qui?».

E oggi? È contento della sua carriera?

«Di alcune cose sì. Ho anche fatto molti film che non volevo fare, solo per motivi alimentari, e li ho sofferti tutti. Oggi invece scelgo. Cioè decido di fare cose che è difficile fare: questo intendo per scegliere. Lo preciso perché non vorrei passare per quello che tutti lo chiamano e invece lui se la tira».

Eppure, nonostante tutto, lei ha un'espressione eternamente insoddisfatta.

«È vero. È un fatto caratteriale. Invecchiando pensavo di acquistare più certezze. Invece i punti riferimento diminuiscono. Così ho ancora paura di volare.

Ma non me ne accorgo».

Commenti