Cultura e Spettacoli

Un borghese grande grande. Vita spericolata di Cancogni

Militante disilluso del Partito d'azione, cristiano in redazioni ad alto tasso di comunismo: un autore davvero controcorrente

Un borghese grande grande. Vita spericolata di Cancogni

«L a Resistenza è stata un'invenzione dei comunisti e gli altri partiti ci sono entrati per sbarrare la strada al comunismo». Veleggiando verso il secolo di vita Manlio Cancogni, il decano delle lettere italiane (è nato nel 1916), non le manda a dire e smitizza tutto quello che gli capita a tiro, anche la guerra di liberazione a cui pure ha contribuito, ma di cui non condivide la retorica: «Non avevo nessuna voglia di lasciarci la pelle. Non avevo avuto voglia di lasciare la pelle combattendo per la patria, in Albania, ma non avevo neppure voglia di lasciarcela per una battaglia ormai stravinta». Siccome è chiaro che la formidabile macchina bellica degli Alleati avrebbe avuto comunque ragione dei nazifascisti, a prescindere dall'apporto dei partigiani, marginale. Cancogni fu un partigiano borghese, militante di un partito borghese: «Io che cosa ho di proletario? Non ho nemmeno l'aspetto, non ho le physique du rôle». Faceva parte del Partito d'Azione da cui uscì presto, nel '46, perché non accettava la svolta a sinistra: «Ma che vadano al diavolo le masse, chi se ne strafrega delle masse».

Sono le parole liberissime e lucidissime che Cancogni regala a chi legge Il racconto più lungo. Storia della mia vita , conversazione con Giovanni Capecchi pubblicata da Interlinea. Vi emerge uno scrittore autarchico, refrattario a mode e manifesti, un membro potenziale della Società degli Apoti vagheggiata da Prezzolini e formata da coloro che non la bevono. Il suo è un grande esempio di onestà intellettuale e di sprezzatura che si manifesta nei più svariati campi: il giornalismo, la letteratura, la politica, perfino la famiglia: «Io sono un misogino e la mia misoginia deriva dal fatto che non amavo mia madre. Anzi, confesso, la odiavo, ma lei odiava me, però».

Cancogni ha una memoria impressionante, si ricorda tutto, la chiesa dove è stato battezzato (San Pietro a Bologna), il nome della balia (era il tempo delle balie), perfino il prezzo delle puttane (era il tempo dei casini): 20 lire, in quello che negli Anni Trenta era il casino più famoso di Roma, il Grottino di vicolo del Grottino. Sembra capace di ricordarsi tutti i tantissimi libri che ha letto, e i non pochi che ha scritto, e i principali articoli compreso quello celeberrimo uscito nel '55 sull' Espresso : Capitale corrotta = nazione infetta . Che però, com'è nel suo stile, minimizza: «Mi dette la fama del lottatore della democrazia e non era vero assolutamente niente, anzi, sentivo una certa simpatia per Rebecchini», che era poi il sindaco accusato di favorire la speculazione edilizia. «Per anni sono stato considerato un giornalista impegnato, che si batte per le nobili cause. Ma quando?». Cattolico in redazioni ad alto tasso di massoneria e ateismo, anticomunista in case editrici comunisteggianti, ovviamente incappò in qualche problema. Nel '45 scrisse un elogio della scuola nozionistica e mnemonica che venne interpretato come qualcosa di reazionario e Firenze, dove abitava, si riempì di scritte progressiste: «Morte a Cancogni». È un articolo che a distanza di quasi settant'anni ancora firmerebbe: «La poesia va imparata a memoria. Se tu non impari a memoria la poesia vuol dire che non la ami». Nel '48 si espose contro il Fronte Popolare, non perché democristiano (alla fine votò i socialdemocratici) ma appunto perché non comunista: «Venivo anche minacciato. Non voglio far l'eroe, per carità, ma ero su questa immaginaria lista di proscrizione: se avesse vinto il Fronte Popolare io non potevo certo rimanere a Firenze. Mi ero sbilanciato moltissimo, scrivendo, parlando. Già in tipografia mi guardavano male». Un certo bastiancontrarismo o, per meglio dire, una notevole indipendenza di giudizio è la sua cifra anche nei decenni successivi. Ecco come ti sistema il prete più amato dalla sinistra prima di Don Gallo: «Io non avevo simpatia per don Milani, poveraccio, era un convertito. Lettera a una professoressa mi colpì. E mi colpì la frode: non era vero per niente, secondo me, che l'avesse scritta un gruppetto di quei ragazzi di Barbiana, l'ha scritto don Milani, ne sono sicuro, è scritta troppo bene». La figura di Feltrinelli ne esce perfino peggio: «Quel disgraziato di Giangi con me fu molto gentile, ma era chiaramente un nevrotico, chiaramente aveva bisogno di compensi affettivi. Aveva una madre terribile…». Nel mucchio ci finisce anche Inge, definita «una donna tremenda». La piena del disprezzo Cancogni la riserva al Gruppo 63 dipinto come una polizia ideologica dedita a reprimere la libertà di espressione: «Personaggi orrendi: Balestrini, Sanguineti, Barilli, Roversi, Pagliarani. Di un'arroganza e di un arrivismo…».

Chiuso il libro di ricordi di questo magnifico novantenne mi è venuta la voglia di leggere uno dei suoi romanzi sulla guerra d'Albania, e questo è facile, basta comprarlo, e inoltre quella di scoprire un Cancogni trentenne, un nuovo scrittore che dello scrittore vecchio abbia la stessa inclinazione per la libertà e la grazia, e questo è difficile, chissà se esiste.

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