Cultura e Spettacoli

"Il mio maestro di musica insegna a scuola come suonare la vita"

L'attore recita nella "Compagnia del Cigno" su Rai1: "Ai ragazzi servono guide salde"

"Il mio maestro di musica insegna a scuola come suonare la vita"

È stato Caravaggio, maestro di luci e ombre, pittore sublime e uomo tormentato. Oggi, dieci anni dopo, impastandosi della stessa materia dell'assoluto nell'arte, resta maestro, ma di musica. Non un genio, come il pittore della «Cena di Emmaus», ma un soldato della cultura che a quel genio vuol far puntare i suoi studenti. Alessio Boni ama i ruoli che in qualche modo graffiano il pubblico e pure sé stesso: alla fine, restano segni ben visibili nella memoria di entrambi.

Ne La Compagnia del Cigno, serie televisiva («Non chiamatela fiction, è una parola che detesto») in onda su Rai1 in prima serata dal 7 gennaio in sei puntate, scritta e diretta da Ivan Cotroneo, l'attore di origini bergamasche si cala nei panni antipatici del Maestro Luca Marioni, «sergente di ferro» addestratore di giovani studenti del Conservatorio di Milano. Tra di loro ci sono i sette musicisti - «sette come le note» - che dovranno crescere come esseri umani e come interpreti sotto il peso della bacchetta di un direttore d'orchestra spietato, duro e anaffettivo. Non a caso i ragazzi lo chiamano, senza troppi giri di parole, «il Bastardo».

Alessio Boni, che tipo di bastardo è stato in questa storia?

«Uno di quelli che poi ringrazi di aver incontrato sulla tua strada. La verità è che i ragazzi, oggi, hanno bisogno di queste guide salde, che ti dicano il vero con sincerità e durezza. La disciplina è una virtù, che oggi viene dipinta di negatività».

Lei viene dall'Accademia di arte drammatica, ha fatto cinema e teatro d'autore con registi come Marco Tullio Giordana, Giorgio Strehler e Luca Ronconi: ha mai avuto un maestro duro come il suo Mariani?

«Sì c'è stato, si chiamava Orazio Costa Giovangigli, pedagogo già maestro di grandi come Gassman e Lavia. È stato fondamentale per me e per colleghi come Piefrancesco Favino, Fabrizio Gifuni e tanti altri. La sua severità è stata un dono».

Prima di diventare attore si dice lei sia stato animatore nei villaggi. E che sia perfino diventato poliziotto.

«Tutto vero, soprattutto sono stato piastrellista. Accanto a mio padre. Ho posato tante di quelle piastrelle...».

Nella vita e nella professione lei è severo?

«Nella vita no. Nel lavoro ho una certa rigidità. Diciamo che sono alunno e maestro: apprendo tutto da tutti, anche le cose negative, per capire cosa non devo fare. L'attore non è un mestiere che fai perché ti hanno puntato la pistola alla tempia, è una fortuna. Dunque, devi restituire ciò che hai avuto col rigore e la serietà».

Quando ha capito di poter vivere del mestiere di attore?

«Ci sono stati dei gradini importanti che mi hanno fatto capire. Su 780 aspiranti all'Accademia fui uno dei 18 scelti, avevo ventidue anni. Poi il sommo Strehler mi scelse per l'Avaro di Moliére. Infine Marco Tullio Giordana mi volle ne La Meglio Gioventù. Tutto questo mi diede consapevolezza».

Anche dell'importanza di essere bello?

«Io non ci ho mai pensato, grazie al cielo. E non faccio il falso modesto, anche perché la bellezza non è un merito».

Qual è il suo rapporto con la musica?

«La musica fa parte della vita. Non sono un esperto, ma quando posso mi tuffo nell'ascolto di autori come Mahler e Mozart, mi servono anche per costruire i miei personaggi».

É stato difficile calarsi in questo ruolo?

«Sì, è stato duro. Ho studiato ogni particolare con il direttore d'orchestra Roberto De Maio dell'Opera di Roma, imparando a memoria alcuni passaggi di opere, per eseguirli correttamente in solfeggio e postura. E poi ho avuto una grande fortuna».

Quale?

«Anni fa ho potuto frequentare Riccardo Muti (l'attore è stato legato a sua figlia Chiara, ndr): mi sono ispirato alle sue prove d'orchestra.

Ricordo come teneva a bada i musicisti, il suo orecchio assoluto».

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