Il papa primattore della diplomazia mondialeil commento 2

diPapa Francesco è un papa globale, non conosce confini, si lancia in avventure difficili e sorprendenti come del resto ha appena teorizzato per Pentecoste, e ieri ne ha dato prova con la preghiera comune insieme al presidente d'Israele Shimon Peres e con Abu Mazen, presidente dei palestinesi. Il messaggio mediatico è stato potentissimo, miliardi di telespettatori di tutte le religioni hanno fatto saltare in alto il rating tv, e certo il Vaticano ci contava nel preparare il bellissimo spettacolo storico di quei giardini fioriti in cui si è svolta tanta parte della storia del passato, nel bene e nel male. Il processo di pace si è arenato malamente sulla decisione di Abu Mazen di stringere un'alleanza strategica con Hamas, l'organizzazione terrorista in possesso della Striscia di Gaza e determinata alla distruzione di Israele. Un disastro diplomatico patito soprattutto dagli Stati Uniti di Obama e di Kerry, che avevano organizzato nei mesi scorsi una spola disperata rimasta poi senza risultato, povera di strategia. Ed ecco il Papa globale, Francesco, che con l'invito a Roma ha preso fra le mani, se non in mano, la questione più intricata del mondo, quella che fallisce sempre. Dal suo ingresso in Vaticano, primo Papa proveniente dal grande, formicolante mondo dell'America Latina e da quello del pensiero politico gesuita, Francesco dall'inizio ha sentito la Curia come arretrata e asfittica; le sue strategie per riportare la Chiesa a svolgere un ruolo globale come secoli fa, ma senza spada, sono sottili: la sua prima trasferta è stata a Lampedusa, contro le alte onde della sofferenza globale; nel gennaio scorso ha scritto una lettera ai vertici economici riuniti a Davos in cui chiedeva di porre fine alla «intollerabile» fame nel mondo. Putin, Obama, Hollande, sono stati nei mesi scorsi suoi interlocutori su questioni cruciali. Il più effettivo esempio della sua diplomazia internazionale, discutibile quanto attiva, è la vicenda siriana: qui, con la rete di relazioni dirette che un Papa può sempre utilizzare telefonando a ogni capo di Stato, sia mobilitando il consenso delle masse, che ha riunito a settembre in Piazza San Pietro per una veglia di pace, Francesco si è battuto contro quella che ha chiamato in una lettera al G20 «il futile obiettivo» di un intervento militare.
Il Vaticano ha ripetuto più volte che la preghiera di ieri non ha nessun carattere politico, che è solo un modo di ravvivare una speranza che rischia di perdersi. Non è detto che sia una speranza effettiva, ma certo l'incontro si è colorato parecchio da quando il processo di pace è crollato e Abbas, che il Papa e anche Peres avevano definito «un uomo di pace», ha stretto un patto con Hamas, l'organizzazione terrorista che giura di distruggere Israele e che ha sulla coscienza migliaia di morti di terrorismo. Peres però, salvo poche parole in cui ha detto che Abu Mazen deve scegliere fra il terrorismo e la pace, che non può mettere insieme «acqua e fuoco», ha deciso di partecipare col sorriso sulle labbra, anche se il suo governo non avrà rapporti con Abbas finchè sta con Hamas. L'invito, motivato in termini spirituali nonostante il significato politico che Francesco gli attribuisce, era di quelli che non si possono rifiutare: Shimon Peres conclude in questi giorni il suo mandato come Presidente. La preghiera per la pace, la generosa disponibilità con cui ha fatto finta di nulla dopo che Abu Mazen ha concluso il patto con Hamas, è un'apoteosi, il lied della sua vita di novantenne padre della patria. Quanto ad Abu Mazen l'occasione è stata meravigliosa per lui, una totale rilegittimazione dopo l'accordo con l'organizzazione terrorista: nessuna lavanderia può rendere più immacolati dei giardini Vaticani, più gentiluomini della presenza accanto a lui di due leader amati universalmente. Gli schermi televisivi del mondo intero li hanno promossi tutti pacifisti. Abu Mazen ha avuto fortuna.

Ma c'è chi spera nel potere dell'immagine, e certo Francesco le dà un posto importante nella sua strategia globale. Se un desiderio di pace di ritorno dai miliardi di telespettatori ipnotizzati dalla realtà virtuale si trasformasse in colloquio, avrebbe ottenuto il suo scopo.

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