Sguardo perso, il vestito buono addosso e il carrello in mano. Si aggirano tra le corsie semi-deserte mentre la fredda luce dei neon sbatte sulle occhiaie scavate sul viso. Zigzagando, sfiorandosi senza guardarsi, accelerando e smorzando la corsa lungo gli scaffali. Sanno già cosa agguantare mentre battono il campo da baseball del supermercato e sono pronti a correre quanto prima verso la casa base: la cassa. C'è una ragazza che si barcamena tra un cane al guinzaglio e il carrellino. C'è un incravattato con auricolari e zaino in pelle sulle spalle che sembra avere l'affanno. Si distinguono dai disperati, gli unici altri che durante la notte spuntano tra banchi frigo e ripiani vino. Sono uomini e donne, quasi tutti tra i trenta e i quaranta anni, che immersi nel ritmo frenetico della settimana non hanno (letteralmente) neppure il tempo di fare la spesa. Così, quando la prima serata è ormai finita da un pezzo, nella mappa della quotidianità la tappa dopo l'ufficio si chiama supermercato. Perché i tempi sono dilatati, gli orari sono fluidi e il lavoro dilaga nella propria esistenza. Per loro il supermarket h24 è una manna dal cielo. È il non-luogo nel quale recuperare per qualche minuto la propria sopravvivenza tornando a riempire di cose commestibili quel cubo bianco chiamato frigorifero. Per loro il mondo della notte non sono (solo) le oasi della movida, è (soprattutto) il deserto di una società sfrenata. Nei corridoi alimentari il ritmo resta sostenuto, come se fare la spesa fosse una delle tante azioni ripetute di una vita dominata da un'attività febbrile. Solo un ragazzo si concede a movimenti più lenti. Si prende il suo tempo. Vuole godersi il piacere dell'acquisto. Fa parte di questo mondo ma sembra provare a non farsi fagocitare. Poco più in là si urtano due habitué del sette-giorni-su-sette-h24. Non alzano lo sguardo, proseguono la loro personalissima maratona. Il ragazzo dai gesti lenti accenna un sorriso amaro, poi si lascia andare ad un commento: «Siamo qui ma è come se fossimo da un'altra parte».
Non molto tempo fa aggirarsi tra gli scaffali era un modo per evadere dal turbine dell'esistenza, oltre ad un atto collettivo. Anche quando Rockefeller e la famiglia Caprotti portano a Milano la prima «Esse allungata» che avrebbe rivoluzionato il modo di acquistare le cose per gli italiani. Era il 13 aprile del 1957. L'Italia resta di provincia e i consumatori abituati alla piccola bottega a conduzione familiare continuano ad intessere relazioni e ad animare il «salone di vendita» con voci e risate. Il supermercato diventa la piazza del futuro, dove incontrare amici o vicini di casa e dove magari conoscere nuove persone. A chi non è accaduto? Oggi i luoghi del «piacere dell'acquisto» sono gli stessi nella forma ma sono mutati nella sostanza: più spersonalizzati e funzionali al mondo che c'è fuori quelle mura. E il mondo non si è fermato, forse neppure ha rallentato - come ci avevano fatto credere. Con l'esplosione dell'emergenza sanitaria qualcosa era cambiato: in Italia si parlava di smartworking per ravvivare i paesini, di southworking per favorire un controesodo, di storie strappalacrime in stile «mollo tutto e mi trasferisco nel borgo». Pareva una rivoluzione. Poi è arrivato il fenomeno delle grandi dimissioni, che sembrava dare materia plastica alla nuova teoretica del lavoro. Nel biennio orribile della pandemia si è parlato in ordine sparso di «great resignation», di «quite quitting», di «job hopping». Ampollose espressioni d'oltreoceano - per raccontare un microcosmo che pareva rovesciato - unite da un unico filo conduttore: la necessità dell'uomo di tornare al centro. Della giornata, del tempo libero, della vita. Partite dagli Stati Uniti, le grandi dimissioni hanno caratterizzato anche in Italia il nuovo mercato del lavoro, soprattutto tra i più giovani.
Nel 2021 in Italia quasi due milioni di lavoratori si sono dimessi, il 14% in più rispetto a due anni prima, mentre nel 2022 la crescita è stata del 26%. Il tempo libero era diventato la nuova moneta di scambio e migliaia di lavoratori hanno preferito sacrificare la propria carriera in cerca di una posizione che si conciliasse meglio con famiglia, hobby e interessi personali. Ma due anni dopo gli esperti sostengono che il grande esodo sia finito e che il fenomeno sia agli sgoccioli. A confermarlo sono i primi numeri del Job Openings and Labor Turnover Survey, che suggeriscono un ritorno ai livelli pre-pandemia: negli Stati Uniti la percentuale delle cessazioni dei rapporti di lavoro è precipitata al 3,4% al gennaio scorso (era al 4,2% nel gennaio del 2022). Ma già nel luglio del 2023 il livello delle dimissioni era tornato quello del 2019, l'ultimo anno prima dell'onda anomala chiamata coronavirus. Minimi storici che sono l'effetto della crisi economica e dell'instabilità del mercato, delle incertezze della guerra e dell'aumento dei costi delle materie prime. E adesso l'inflazione che erode il potere di acquisto degli stipendi scoraggia i lavoratori (anche i più giovani) dall'assumersi i rischi che derivano dalle dimissioni. D'altronde si sa, quello che accade negli Usa prima o poi arriva anche in Italia.
All'appello mancano ancora i rapporti sullo stato di salute del mercato del lavoro del 2023, l'anno che potrebbe aver chiuso il capitolo della grande flessibilità tra i lavoratori italiani insoddisfatti. Qualche indicazione, però, è già arrivata dai dati disaggregati diffusi dall'Istat sul bimestre a scavallo tra l'anno vecchio e il nuovo. Prendiamo i lavoratori che hanno tra i 35 e i 49 anni: per loro il tasso di occupazione tra dicembre 2023 e gennaio 2024 è rimasto stabile. Anzi, nel primo mese dell'anno il numero degli occupati nella stessa fascia d'età è cresciuto dello 0,4% rispetto a 12 mesi prima. E sono diminuiti anche i disoccupati. Già nei primi tre mesi del 2023 l'Inps aveva registrato un lieve rallentamento delle dimissioni da contratti a tempo indeterminato (sono state quasi 300mila, il 4% in meno rispetto allo stesso periodo del 2022). Poi però è arrivata un'altra guerra che ha scavato nuovi solchi nelle incertezze di tanti. Nel mare magnum dei numeri la traduzione allora appare semplice: in un anno fatto di costi, proteste e guerre non sembra esserci stata una grande mobilità tra i dipendenti trenta-quarantenni come invece accaduto tra il 2021 e il 2022.
Forse è presto per dire con certezza che sia tutto alle spalle, ma la sbornia
estetizzante della vita come espressione di una sorta di flânerie contemporanea pare ormai smaltita. E la società è rimasta pressoché la stessa di prima. Tra la sventura e il nulla, i millennial hanno scelto la sicurezza.
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