Una rivoluzione in prima persona

Nel primo volume dell’opera completa c’è la parabola esistenziale di un intellettuale arrabbiato e solitario. In perenne lotta contro le ipocrisie per la difesa dell’uomo

La distonia è una patologia neurologica che determina contrattura di gruppi muscolari o movimenti involontari. Luciano Bianciardi ne soffriva, ultimamente. E il libro che non scrisse proprio così doveva intitolarsi: «La distonia». Perché dys, in greco, vuol dire «male». E da «male» derivano maledetto, malvestito, maligno, malaccorto, malarico, malagrazia, malandato, malandrino, malanno, malasorte, maleducato, malcapitato, malfidente e tanti altri mal-qualcosa che hanno riempito la sua vita e la sua opera. Lui stava molto attento, al significato delle parole, e sapeva usarle, traendone, all’occorrenza, affabulazione o asciuttezza, invettiva o poesia, «solenne incazzatura» o dolcissima nostalgia.
Era un gran scrittore, Bianciardi, non soltanto un anarchico individualista e rompicoglioni, non soltanto un appassionato storiografo del Risorgimento, non soltanto un acutissimo osservatore del costume, non soltanto «un selvaggio filosofante, scettico e infelice» (come dice di sé nel 1941), non soltanto un adepto del «neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio» (La vita agra). Nacque (a Grosseto, il 14 dicembre 1922) con il fascismo e morì (a Milano, il 14 novembre 1971) con il consumismo. Fra l’uno e l’altro, conobbe un mucchio di altre cose che non gli andarono proprio giù. Non digerì mai il bombardamento di Foggia, il 22 luglio del ’43, e i cadaveri da raccogliere per le strade. Non digerì la strage dei minatori di Ribolla, il 4 maggio del ’54. Non digerì la nebbia e i «tafanatori» di Milano. Né il lavoro culturale, l’integrazione, la vita agra, che diventano i titoli di una trilogia aspra, comica, triste e profetica. Non digerì le troppe grappe e i salotti che se lo contesero, a un certo punto, per esporlo quale bell’esemplare di rivoluzionario maschio proveniente fresco fresco nel sottobosco della capitale morale. Non digerì i doveri familiari, la mamma maestra che lo assillava con lo studio, la moglie «perché si sa come sono fatte queste ragazze di Bube, sempre fedeli alla scelta del dovere, alle istituzioni, e ai quattrini».
Adesso, questo tomone cui è stato inflitto un titolo fuorviante e tutto sommato ingeneroso, L’antimeridiano (coproduzione Isbn-ExCogita, pagg. XXXV-2095, euro 69), ci è utile per metterli bene in fila, tutti i «no» di Lucianone nostro. E per conoscere e apprezzare anche i suoi «sì». Possiamo indicare quattro filoni. Anzitutto (collocarli in coda non è stata una buona idea) i diari relativi agli anni dell’università, ’39-42, e della guerra, ’44-46. È materiale quasi completamente inedito, da leggere con estrema attenzione per cogliervi, accanto agli ovvi slanci giovanili, all’infatuazione per la filosofia e per le ragazze, anche i primi sintomi del mal di scrivere, le prime gemme, verdoline e timide ma che presentano già il tono, il timbro e lo spartito del Bianciardi maturo. «Ho sempre avuto, a momenti, l’ossessione dell’Io, la noia angosciosa di essere sempre presente a me stesso», scrive nel luglio ’45. Ed è un passo decisivo, questo, sulla strada dell’introspezione.
Perché introspettivo è anche il «secondo» Bianciardi, quello del filone risorgimentale. Tutto nasce da un regalo di papà Atide per l’ottavo compleanno. È un libro: I Mille, del maremmano Giuseppe Bandi. Forse non l’ha mai detto e probabilmente non l’ha mai scritto a chiare lettere da nessuna parte, ma siamo certi che Luciano avrebbe voluto essere laggiù, con le camicie rosse. Da Quarto a Torino, La battaglia soda, Daghela avanti un passo, Garibaldi sono il suo modo di stare con loro. Diluendo poi questa comunanza vestita di stracci e ideali eroici anche in alcuni racconti, come nel bellissimo Il volontario Sbrana.
I racconti, ecco il «terzo» Bianciardi: pungente, fantasioso, lucido (no, non è «opaco» l’io di Luciano, come vogliono gli autori dell’introduzione, Massimo Coppola e Alberto Piccinini, né fantozziano, perché semmai è il glorioso ragioniere di Paolo Villaggio a essere bianciardiano, le rare volte in cui lascia esplodere la sua rabbia di travet...). Bersagli preferiti: la morale sessuofobica e chiesastica, le donne secche e smunte, i colleghi, gli industrialotti, l’idolatria del denaro e del successo a tutti i costi. Questo è il Bianciardi «sociale», quello letto anni fa nell’irresistibile raccolta di Chiese escatollo e nessuno raddoppiò (Baldini&Castoldi, 1995) che conteneva articoli disseminati in molti giornali e riviste. Il Bianciardi apparentemente più leggero e invece più pesante, insolente, greve ma con levità, con il mezzo sorriso che increspa la parte di bocca libera dalla sigaretta.
E il «quarto» Bianciardi? È quello della trilogia ricordata prima: Il lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra. Tre titoli che gli studentelli e gli scrittorelli di oggi dovrebbero divorare come superbe bistecche fiorentine per irrobustire i loro muscoli morali e le loro prose rachitiche. Ci sono gli intellettuali di provincia che nel dopoguerra, quando si tratta di rimettere in piedi l’Italia, si azzuffano sulle virgolette alte o basse, c’è l’«impegno» che si dissolve nel qualunquismo, c’è la campagna e c’è la città, c’è l’odio e c’è l’amore, c’è il sesso e c’è la fame. C’è, insomma, niente più e niente meno che la vita. L’ultimo libro di Bianciardi è Aprire il fuoco e sta a cavallo fra il secondo e il quarto filone. Scritto nel marzo del ’68, uscì un anno dopo. Qui troviamo il colpo di genio: le Cinque Giornate di Milano rivissute 111 anni dopo, nel 1959. Ci sono ancora gli austriaci, ma in giacca e cravatta, ci sono ancora le barricate, ma erette con le filovie, ci sono ancora belle fanciulle prosperose che portano da mangiare agli insorti. Luciano, invece, come il suo alter ego del romanzo, è in esilio a Nesci (cioè a Rapallo), come lui attende il segnale per una nuova rivolta, come lui ogni mattina scruta di lontano il casello dell’autostrada. Ma i compagni non si fanno vivi, chissà, li avranno chiusi in qualche ufficio polveroso. «Se mandano qua un altro loro aguzzino, io sono pronto ad aprire il fuoco».
Il 26 ottobre 1971, su una cartella clinica di accettazione dell’ospedale San Carlo di Milano c’è scritto, fra l’altro: «Beve alcolici. Fumatore di oltre venti sigarette al giorno. Sintomi.

Da tre anni è affetto da nervosismo, tremiti, insicurezza nella deambulazione, nausea, vomito a digiuno, insonnia. Diagnosi: cirrosi epatica». E nel letto della stanza 305 gli infermieri adagiano quel che resta di un grande uomo, tradito dalla sua personalissima rivoluzione.

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