L'erede si racconta Il favoloso mondo di Lapo il timido

Elkann pubblica il suo diario, tra appunti fanciulleschi creatività e confessioni: "Ormai non fuggo più da niente"

Lapo Elkann con una giacca rossa in onore della Ferrari ai box del "Cavallino"
Lapo Elkann con una giacca rossa in onore della Ferrari ai box del "Cavallino"

Un diario. Non un libro. Un quaderno colorato e colorito come il titolare del medesimo. Lapo Edouard Elkann titola «Le regole del mio stile» il manuale della sua vita. Gli avrei suggerito, piuttosto, di ribaltare il concetto, non l'idea «Lo stile delle mie regole», perché dal centonovantaduesimo giro di pista (laps, c'è del suo anche in questo), come vengono citate le pagine, a scalare come in un gran premio, fino al traguardo, che non c'è perché la corsa ricomincia, in quelle pagine, dicevo, il nipote di Gianni Agnelli, nonché figlio di Alain Elkann, raccoglie gli oggetti e le persone, i sapori e i profumi, i gusti e i gesti, di una esistenza veloce e feroce, la sua. Lo ha aiutato l'inquietante Michela Gattermayer giornalistartista, sembra abbiano usato le matite colorate Giotto, quelle della scatola di latta nella quale ne mancava sempre una. Ma Elkann Lapo ne trova e ne inventa un'altra, un colore non previsto e nemmeno prevedibile e allora si scoprono disegni e schizzi anche infantili, perché in fondo, il personaggio più bizzarro della famiglia più illustre del Paese, è un bambino di trentacinque anni o un uomo più maturo di quello che finora ha mostrato sulla sua vetrina. C'è molta Cinquecento nel libro, fu un'idea di Lapo che la divide, nel libro, con gli altri ma a lui venne però negato, dai signori sabaudi, puri e duri, l'invito d'onore alla presentazione della vettura in una Torino piena di luci e di gente. 500-1, osai scrivere a commento.
«Chi teme la propria creatività è destinato a perderla», annota a un certo punto dei giri di pista, «creativo» è l'aggettivo qualificativo più ricorrente, riguarda l'imprenditoria, l'azione, il congiuntivo, tutta roba che appartiene al favoloso mondo di Amélie-Lapo che apre i suoi armadi non soltanto per mostrare abiti, scarpe, indumenti, bretelle o bottoni ma tutto quello che c'è dentro oggi o che c'era prima. Un oggetto ha la sua storia mentre fa cronaca. Chi è stato capace di creare un occhiale dal costo di mille e sette euro è lo stesso che tiene come ricordo il cappotto del nonno o una collana di zio Edoardo e mette ai muri dell'ufficio le fotografie di zio e nonno, assieme a quella della Juventus e della 500, di suo fratello John e la tuta di Alonso. Zio Edoardo è Edoardo Agnelli, tragicamente finito senza aver potuto incominciare. Lapo accenna anche alla propria caduta, «io non ho scheletri, quello che conta non è come cadi ma come ti rialzi». Confessione veloce, pit stop fulmineo, figli della sua timidezza che è il segno vero e imprevedibile della persona e personalità che qualcuno suppone arrogante, cialtrona e cafona.
«Oggi non fuggo più da niente», dice ma poco prima ci fa sapere che si porta sempre appresso il passaporto «nel caso decida di fuggire, da bambino ho imparato che è meglio avere una via di uscita». Le sue vie di uscita sono Torino e Milano, Roma e Parigi, New York e Londra, Pechino e lo stadio della Juventus, dovunque, comunque, per vivere e non sopravvivere: «Mi tengo in equilibrio su un disequilibrio assoluto» è un ossimoro che è il suo perfetto identikit, di chi porta il fazzoletto al taschino ma lo usa anche per soffiarsi il naso, di chi sa di essere esagerato e da bambino soffriva di mal d'auto, d'aereo e di mare, paradossalmente i territori slogan della casa madre, la Fiat. A otto anni già aveva saputo baciare il suo primo amore ma alla stessa età era tenore del coro dell'Opera di Parigi. Ci sono giri inediti in questo suo circuito esclusivo, un elenco di negozi, ristoranti, sarti, musei, gallerie d'arte, tatuatori, i tagliolini di Montana a Maranello, la mensa della Ferrari, Ignazio, l'autista interista, diciassette tatuaggi, la sveglia alle 6 del mattino, come il nonno che cominciava, con perfidia, a rompere le scatole al mondo (Gianni Agnelli a quell'ora telefonò a Platini e domandò: «Stava dormendo?», Michel lo spiazzò: «Non ancora»). Lapo sfoglia le figurine con le quali ha avuto il piacere di parlare e di provare emozioni e sensazioni: Kissinger e Hillary Clinton, Eminem e Richard Branson, Fabrizio Giugiaro e l'architetto Zaha Hadid, Putin «non ho mai incontrato una persona di tale freddezza, velocità e capacità», Ayrton Senna e suor Giuliana Galli, Bill Clinton, nonna Carla e nonna Marella, la sorella Ginevra e Giovanni Soldini, Shimon Peres e Anthony Hopkins, ce ne sono altre e riempiono l'album come le amicizie nel mondo del football: scontati Del Piero e Vialli, Ciro Ferrara e Buffon, imprevisto Materazzi «di una gentilezza estrema», poi Totti «un grandissimo» e «voglio bene a Cassano».
Il diario gran premio non prevede la bandiera a scacchi, «essere buoni non è essere fessi…io ho voglia di essere quello che sono: non ho nessuna intenzione di diventare cattivo per non sembrare debole».


La prima di copertina non mostra il volto intero di Lapo, pure oscurato dagli occhiali. Devi squadernare il libro, aprirlo come una finestra e l'immagine si fa intera. È una questione di stile. E di regole. Basta così.

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