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Poliziotto morì in servizio. Ma il Tar "scarica" la moglie

La vedova dell'agente chiede aiuto per un lavoro. I giudici le sbattono la porta in faccia: "Suo marito non morì per mano criminosa"

L'incidente in cui perse la vita l'assistente capo Mauro Celani
L'incidente in cui perse la vita l'assistente capo Mauro Celani

Il marito poliziotto muore in servizio, ma al ministero degli interni non importa. Il Tar ribadisce: «Non è una vittima del dovere». E lei resta sola, con le sue due figlie: chiedeva un lavoro, non lo avrà.
Rosanna Guadalupi ci aveva sperato. Contro ogni speranza. E per questo aveva portato davanti ai giudici la battaglia allo Stato smemorato, che piega il diritto in cavillo e dimentica i martiri silenziosi, dividendo la morte (e i morti) in categorie. Ha perso pure in Tribunale, perché l'uomo che aveva sposato, le hanno scritto persino in sentenza, era sì caduto per la Patria, ma senza eroismi.

Del resto, l'assistente capo Mauro Celani, classe 1962, degli ispettori Callaghan tutti piombo e distintivo non s'era mai invaghito: entrato in Polizia, s'era distinto per il senso del dovere. Dal matrimonio con Rosanna erano nate due bambine.
Il 3 maggio del 2012 la più grande aveva 6 anni, l'altra appena 4. Quel giorno Celani, in forza al Commissariato di Ivrea, riceve l'incarico di occuparsi del recapito posta. Sulla strada del ritorno gli viene ordinato di passare da Bessolo per prendere a bordo il cappellano territoriale della Polizia, don Stefano Fogliato, ed accompagnarlo alla sede del V° Reparto Mobile di Torino. Non ci arriveranno mai: un'auto che marcia in direzione opposta li travolge. Nel frontale muoiono sul colpo. I funerali sono solenni: autorità di nero vestite, bare imbandierate, picchetto d'onore. Ma è solo il velo che copre il dramma che la burocrazia trasforma in tragedia. Rosanna Guadalupi, vedova, bussa al Viminale. Le relazioni di servizio parlano chiaro.
Il verbale della Commissione medica ospedaliera anche: esiste «il nesso di causalità tra le lesioni che hanno determinato il decesso immediato dell'assistente e il servizio che questi stava effettuando».

La donna presenta istanza d'assunzione nei ranghi del personale tecnico della Polizia. Il ministero risponde picche: Celani non è vittima del dovere. È solo un caduto in servizio. La differenza sta nel numero di pallottole che è necessario beccarsi per potersi fregiare del titolo. Il Tar Piemonte, al quale la Guadalupi si rivolge, la spiega così: «L'evento che ha determinato la morte non era connesso a operazioni di ordine pubblico. L'attività per cui l'assistente capo Celani era stato comandato, ancorché con ordine di servizio, non può essere considerata quella indicata in materia di assunzione diretta, non potendosi ascrivere ad essa un fattore di rischio superiore a quello normalmente riscontrabile nelle ordinarie attività di istituto». Ed a nulla vale che la legge, testualmente, stabilisca che «per il coniuge superstite e per i figli del personale delle forze dell'ordine deceduto nell'espletamento del servizio le assunzioni nei ruoli del personale tecnico della Polizia di Stato avvengono per assunzione diretta»: per il Tar, nulla più di un articolo «dal tenore generico e meramente elencativo».

Ora la partita potrebbe proseguire davanti al Consiglio di Stato, o chiudersi qui.
«Valuteremo. I costi sono elevati.

Inoltre, la giurisprudenza di merito è alquanto restrittiva rispetto ad una norma che pure parla chiaro», commenta l'avvocato Carlo Angeletti, che coi colleghi Luigi Angeletti e Paolo Buzzelli ha sostenuto in giudizio le ragioni di Rosanna Guadalupi. La vedova Celani, intanto, ce l'ha messa tutta per voltare pagina. Con quell'impiego voleva assicurare un avvenire alle due bimbe orfane di padre. Lo Stato glielo ha negato: non c'è spazio, in Italia, per gli antieroi.

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