Gli aiuti umanitari? Colonialismo

Il cuore profondo dell’«Africa nera», come ancora la chiamano i manuali di geografia per le scuole, è probabilmente qualcosa di poco comprensibile per gli occidentali. Noi siamo uomini della mezza misura, della sfumatura, siamo gli abitanti della «zona del crepuscolo» e abbiamo bisogno «dei passaggi, della penombra». Invece laggiù non c’è alcun tempo per la penombra, il tramonto è immediato. A «due gradi di latitudine a sud dell’equatore, il sole non lascia margini, la notte cade come una ghigliottina», come se la natura girasse l’interruttore, si passa improvvisamente dalla luce al regno di «una totale, indiscutibile oscurità».
È in quella parte d’Africa che il drammaturgo elvetico Lukas Bärfuss ha ambientato il suo riuscito e feroce romanzo d’esordio. Precisamente in Ruanda, e proprio nel periodo della sua storia che ha lasciato maggiormente il segno nella coscienza mondiale. I Cento giorni del titolo (Einaudi, pagg. 216, euro 15, traduzione di Daniela Idra) sono quelli che vanno dall’aprile al luglio del 1994, quando il Paese, che veniva considerato «la Svizzera africana» per ordine, pulizia e cortesia, si trasformò nell’arena sanguinaria di «uno dei crimini del secolo». Furono i giorni in cui l’etnia Hutu sterminò a colpi di machete importati dalla Cina un numero di Tutsi stimato fra i seicentomila e il milione. Un record da far invidia a Mao e Pol Pot, più che altro per la rapidità di esecuzione. Il genocidio avvenne come conseguenza del riaprirsi di una faida tribale e politica, inasprita dagli errori e dalle incomprensioni del colonialismo belga.
Il protagonista del romanzo di Bärfuss si chiama David Hohl, è un ventiquattrenne svizzero, quello che si dice un bravo ragazzo. Fin dall’infanzia ha coltivato «uno spiccato senso della giustizia», crede nel bene, vuole «far progredire l’intera umanità». Imbevuto della letteratura della négritude, ha eletto come propria bibbia Radici, il romanzo di Alex Haley da cui fu tratto il famoso sceneggiato televisivo. Hohl sente sulle proprie spalle il pesante fardello del senso di colpa europeo e nei primi anni Novanta, per espiarlo, parte volontario alla volta del Ruanda. Non ne è ancora consapevole, ma anche il suo nobile intento è una forma di colonialismo, è presunzione di insegnare i diritti dell’Uomo, le mezze misure di noi occidentali agli africani che pretende di capire più di loro stessi.
Tutta la sua permanenza, e soprattutto gli ultimi cento giorni di orrore, mentre vengono smembrati corpi e ideali, sarà un bagno di realtà, un appunto indelebile su quali limiti possa oltrepassare la malvagità umana. Gli stessi sforzi degli operatori umanitari per «civilizzare» e modernizzare il Paese si riveleranno infatti nefasti: decideranno di finanziare la nascita di una radio locale, organizzeranno corsi di formazione con tanto di giornalisti svizzeri inviati sul posto come consulenti per insegnare il mestiere. Il progetto, tuttavia, diventerà un involontario favoreggiamento del genocidio, dato che proprio dalla radio gli Hutu lanceranno i loro incitamenti a sterminare quelli che chiamano «scarafaggi» Tutsi.
Così, da un giorno all’altro, scatterà l’interruttore, come quello che dal giorno fa scendere la notte, e cominceranno gli omicidi in serie. Gli indigeni mostreranno un altro volto, anche i più insospettabili come il ragazzino timido che da cameriere si trasforma in assassino spietato, come il tranquillo giardiniere che passerà dal potar siepi a recidere arti umani. La bella ragazza laureata a Bruxelles, infatuata dello stile di vita europeo, frivola e priva di ogni coscienza politica, finirà per odiare «gli scarafaggi» e indosserà orgogliosa la mimetica delle milizie.

Non c’è però facile razzismo nell’opera di Bärfuss: semplicemente negli africani si mostra con meno ipocrisie la parte peggiore che dimora nascosta in ogni uomo. Anche Hohl, per voler «essere nel giusto», diventerà colpevole, il confine fra innocenti e rei, la sfumatura fra bianchi e neri, piomberà nella tenebra.

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