Cleto Locatelli, il pugile che sedusse Parigi

Campione dei pesi leggeri, da giovane decisse di andarsene da Milano per boxare nella Ville Lumiere, che subito lo adottò e lo amò per tutta la vita

Cleto Locatelli, il pugile che sedusse Parigi
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Frugandosi in tasca si sorprende in un sorriso amaro. Dentro ci sono davvero due lire. Eppure pensava che fare questo mestiere pagasse di più. Ma forse, si dice Anacleto Locatelli, è che Milano e l'Italia non bastano. Serve trasferirsi altrove, dirigere le scarpe verso un tempio sacro della boxe europea, anche se i soldi finiranno appena sceso dal treno. Serve andare a Parigi.

Fuori è il 1930, ha appena diciott'anni e l'intruglio politico mondiale non promette niente di buono. Ma lui pensa soltanto ad incrociare i guantoni. In fondo lo fa praticamente da quando è nato. Appena il tempo di intravedere Bellinzona e subito via, verso Milano. Da bambino si era annodato da solo degli stracci intorno alle nocche, per simulare dei guantoni. Quando la passione ce l'hai incisa all'interno, deflagra subito.

Poi, dopo la leva militare, inizia nel circuito dilettante. Pare che abbia un dritto sinistro promettente e che la cadenza delle gambe sia quella giusta, ma comunque nessuno grida al fenomeno. Passato nel circuito professionisti dei pesi leggeri - è alto 1.70 - riesce però ad attirare subito i riflettori su di se, sconfiggendo i più quotati Palumbo e Marfut. Pure in mezzo a qualche inciampo, la sua carriera inizia così a stapparsi.

Nel 1929 diventa campione italiano dei pesi leggeri, anche se poi perde il titolo alla prima difesa poco dopo, contro un altro boxeur italiano di spessore notevole, Carlo Orlandi. Di Cleto, abbreviativo indispensabile a fronte della lunghezza del nome, rapiscono specialmente il dinamismo, l'inesauribile combattività, l'incapacità totale di disertare la fede nei suoi mezzi, anche quando l'avversario è talmente forte che incupirebbe chiunque.

Cleto Locatelli
Cleto Locatelli prima di un match

Come Marcel Cerdan, semidivinità pugilistica che, che incrociandolo più avanti sul ring, e con dieci anni meno di lui, descrive l'incontro con una creatura demoniaca: "Ho tirato di boxe contro Locatelli e per molte riprese ho creduto di combattere contro Satana". Perché intanto Cleto quel treno l'ha preso davvero e all'inizio degli anni Trenta si è trasferito, nemmeno lui sa come, nella Ville Lumière, dove subito accentano il suo nome. Qui ha soltanto un'opportunità: vincere sul ring contro avversari di calibro internazionale per strappare gruzzoli che gli consentano di vivere dignitosamente.

Farà molto più di questo. Nei primissimi match divelge ogni possibile perplessità sul suo conto prevalendo sull'ottimo Eduard Tenet, sull'energico cubano Nebo, sulla "tigre" Gustave Humery. Il pubblico inizia a idolatrarlo, le sua tasche si rimpinguano, il tenore di vita cambia. Tra il 1930 ed il 1933 combatte in Francia oltre trenta volte, sempre con risultati rutilanti, sempre guadagnando nuovi corifei delle sue gesta ad ogni ripresa. A Parigi apre un ristorante, Chez Cletò, che gli consente di ottenere un'altra cospicua entrata, anche perché i soldi escono con facilità irrisoria una volta che la città bene ti invita a far parte del ristretto club.

In questo periodo Cleto diventa due volte campione europeo dei pesi leggeri e disputa match memorabili, come quello romano - il 22 ottobre 1932, in piazza di Siena - contro il belga Sybille, per mettere in palio la cintura. A bordo ring c'è anche Benito Mussolini, che vorrà salutarlo personalmente dopo la vittoria, per fargli sapere che è un suo grande fan.

Cleto ha però un incendio che gli divampa dentro. Prima non bastava l'Italia, adesso non è più sufficiente l'Europa. Deve alzare ancora l'asticella. Per farlo vola in America, dove diverrà protagonista di scontri epocali con calibri come Jack Kid Berg e Tony Canzoneri. A New York trova anche il modo di sconfiggere il futuro campione dei pesi welter, Fritzie Zivic.

Quindi il ritorno nella sua adorata Parigi per sfilare verso l'epilogo della sua carriera, quel match che stranisce Cerdan, gli ultimi acuti di un percorso cominciato al buio, armato soltanto di una passione limpida, e con due lire nella tasca.

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