Stile

Ambiente e diritti umani I gioielli che fanno bene

Il lusso sostenibile di Tiffany. Pandora produce in Thailandia Damiani e Lebole hanno realizzato due bracciali «benefici»

Daniela Fedi«Io non penso mai ai bambini poveri, ma loro non pensano mai a me». Il cinismo sconfinato di questa frase viene attribuito tanto a Wallis Simpson quanto a Coco Chanel. In ogni caso si tratta di donne elegantissime, con molti gioielli e poca coscienza sociale: un teorema ampiamente smentito dalla storia. Oggi infatti i più importanti marchi di gioielleria sono tra i maggiori investitori al mondo in beneficenza e sostenibilità. Leader indiscusso tanto in questo settore quanto nel lusso è Tiffany che ha una policy aziendale severa ed esemplare sotto tutti i punti di vista. Tanto per cominciare la società non è mai coinvolta con i cosiddetti «conflict diamonds» (cioè i diamanti che provengono da zone di guerra e venduti clandestinamente per finanziare conflitti e rivolte) non usa pietre come i rubini provenienti soprattutto dalla Birmania in cui la democrazia è un optional né materiali in via d'estinzione come il corallo. Inoltre dal 2005 aderisce alla campagna «No Dirty Gold», la promessa di non estrarre l'oro da quelle miniere che non soddisfano i requisiti sociali e ambientali. Poi, una volta esaurite le miniere l'azienda s'impegna a ricoprirle con parchi nazionali. «Abbiamo l'obbligo di proteggere la natura, dobbiamo onorare la terra che ci dà così tanta bellezza, facendo tutto il possibile per lasciarla intatta» dice il Ceo Frédéric Cumenal raccontando che questo impegno è iniziato nel 1995 quando Tiffany & Co si è opposta allo sviluppo di una miniera d'oro che minacciava il Parco Nazionale di Yellowstone. Perfino la carta delle celebri confezioni azzurre proviene da foreste gestite in modo responsabile e tanto i dipendenti diretti quanto i dipendenti dell'indotto devono aderire al bilancio di sostenibilità pena la sospensione immediata della prestigiosa collaborazione. Sui diritti umani, soprattutto su quelli sistematicamente calpestati delle donne, è davvero imbattibile Pandora, marchio danese di gioielleria che dal 1989 ha delocalizzato la produzione in Tailandia, a Gemopolis, nei pressi di Bangkok, dandone il pieno controllo alle persone del luogo. Oggi l'azienda ha 6800 dipendenti, la stragrande maggioranza dei quali di sesso femminile ma con buoni salari, pasti gratuiti, assistenza medica, asili nido, borse di studio e attività sportive garantite. «Non saremmo in grado di mantenere lo standard di qualità elevato dei nostri gioielli se non offrissimo ai nostri dipendenti i mezzi migliori per esprimere la propria arte» dichiara Thomas Nyborg, managing director di Pandora in Tailandia. Alle donne e ai loro enormi problemi quotidiani pensa da sempre Oxfam, un'organizzazione non governativa che combatte l'ingiustizia e la povertà in oltre 90 Paesi. «Nel mondo ci sono 795 milioni di persone che non hanno cibo a sufficienza e moltissime sono donne. Se avessero gli stessi diritti e opportunità degli uomini potrebbero sfamare 150 milioni di persone in più e ridurre la fame del 19%» spiegano i rappresentanti di Oxfam Italia con cui collaborano ben due marchi di gioielleria made in Italy: Lebole Gioielli e Damiani. Il primo lancia per questo Natale un braccialetto gadget realizzato con tessuti wax (le inconfondibili stampe a cera delle coloratissime vesti africane) e un ciondolo in legno colorato. Il gadget viene venduto a 10 euro nei flagship del marchio oppure sul sito lebolegioielli.it e l'intero ricavato viene devoluto a Oxfam Italia. Invece Damiani ha creato una limited edition D.First che verrà presentata la prossima settimana nella boutique di via Montenapoleone da Margherita Buy, ambasciatrice di Oxfam Italia.

Anche in questo caso il ricavato verrà devoluto alla Ong, ma come se questo non bastasse l'azienda dal 2009 realizza la collezione Maji (acqua in lingua swahili) con Sharon Stone per donare parte dei profitti a Drop in the Bucket, l'associazione umanitaria che si occupa di portare l'acqua nei più sperduti villaggi africani.

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