Giuseppe Maria Garibaldi, nato a di Nizza il 4 luglio 1807, di professione icona patria, difficilmente si può ridurre alla semplicità di un busto in bronzo. Eppure la vulgata ci consegna solo oleografie di cavalle bianche, didascalie monocordi di «obbedisco», acquerelli di cariche furenti con camicia rossa.
Intendiamoci, al Generale la posa equestre piaceva; fu capace di mandare in deliquio le masse, anticipando di un secolo rock star e guerriglieri sudamericani alla moda. Si puntigliò, però, di restar se stesso: un birbante, semplice e schietto oltre il limite del ragionevole, un corsaro capace di restarsene a bolletta pur di non accettare regali dai potenti, almeno da quelli che non gli garbavano. Insomma un dilemma col poncho, aduso a far tribolar gli storici che, avvicinandosi il bicentenario della nascita, hanno il loro bel da fare a prepararsi alla genetliaca bisogna.
Intanto qualche editore si è portato avanti, ripubblicando i suoi libri, che non uscivano dalla polvere delle biblioteche da anni. Perché fra le sue tante attività dimenticate dai bigini (precettore, capitano trafficone, agricoltore, marmista, candelaio... ) Garibaldi sinventò anche romanziere e biografo di se stesso.
Lestro narrativo gli nacque nellozio forzato del 1868. Lanno prima aveva cercato di risolvere, a modo suo, la Questione romana. Il risultato fu il disastro di Mentana e lincarcerazione al Varignano. Se Vittorio Emanuele II aveva sempre avuto una certa tolleranza per le sue «maschie imprese», sempre utili e sempre sconfessabili, quella volta non se la sentì. Fu così che larzillo anzianotto dei Due mondi fu rispedito a Caprera con rafforzato blocco navale. In tanta noia Garibaldi, che intanto si era scoperto gran sostenitore dellinternazionalismo pacifista, decise di dedicarsi alla penna. Lintento dichiarato era quello di educare, ma anche di «infine campare un po anche col mio guadagno». Ne nacque il suo primo romanzo. Lopera, che piacque soprattutto ai suoi detrattori, vogliosissimi di dargli dellilletterato, ebbe traversie sin dal titolo. Avrebbe dovuto chiamarsi «Clelia», nome che il generale diede anche a una delle sue figlie, con il chiarissimo sottotitolo: «Ovvero il governo dei preti». I primi però ad acquistare i diritti furono editori inglesi, Paese in cui il simbolo principale del papismo era il monaco. Il romanzo divenne così: The role of the monk. E così tornò in Italia dove i fratelli Rechiedei lo ripubblicarono con nota recriminatoria dellautore: «A Londra qualche prete senza dubbio ha creduto meglio intitolarlo il governo del monaco».
Tolto il titolo, linsuccesso inevitabile stava nel testo. Garibaldi, amico e ammiratore di Dumas, che lo aveva accompagnato in yacht per tutta la campagna di Sicilia, aveva deciso di puntare le sue carte letterarie sul romanzo storico. La cosa non era nelle sue corde, un po per i suoi studi disordinati, un po per la sua memoria cronicamente lacunosa sulle date e sui posti. Circondato comera da scalmanate signore intente a recidergli ciocche di capelli, nessuno però ebbe cuore di avvisarlo dei rischi.
Risultato? Pagine e pagine di tirata contro i «preti malvagi» che uccidono gli infanti, e una storia di congiurati ambientata in una Roma virata al macabro. Di storico poco, di neogotico non abbastanza, di retorico-patriottico sui figli della Lupa troppo. Il librino, però, ai giorni nostri, è in grado di regalare al lettore accorto un sacco di cose. Cè il clima di unepoca, un bel po di riferimenti massonici, limmaginifico di una generazione che vedeva nel patriota luomo nuovo armato di pugnale. Il tutto alla faccia del pacifismo: andava bene per il consorzio delle nazioni, un po meno per il fai da te insurrezionale antiromano che il generale sfogava tutto nella violenza della fantasia. Anche perché ogni volta che Garibaldi ebbe a che fare con religiosi veri finì per tirare fuori il suo lato buonista e scaltro, soprattutto con le monache palermitane che se lo abbracciavano riempiendolo di cassata.
Poco daltro cè da dire anche sullaltra prosa dellesule di Caprera in via di ripubblicazione questanno: Cantoni il volontario. Il protagonista è un personaggio storico (il forlivese Achille Cantoni) le cui vicende Garibaldi romanza con gonfie pennellate. Al suo fianco colloca Ida, bellissima fanciulla di Felsina, che si traveste da uomo per seguirlo in guerra. Gli innamorati vanno verso Roma, combattono sul Gianicolo in difesa della Repubblica, scampano alla disfatta per sposarsi e morire felici sul campo di battaglia di Mentana (dove il povero Cantoni le penne le lasciò per davvero).
Sotto gli stucchi della retorica ad affascinare è il personaggio femminile. Ci vuol poco a vederci limago di quellAnita venerata dal Generale, proclive al gentil sesso e protofemminista, come eterno prototipo di ogni virtù. Le parole che raccontano la bella brasiliana nelle autobiografiche Memorie tornano costantemente a adornare, quasi calchi, leroina del romanzo. Ed è parlando di Memorie che ci si trova di fronte alla ripubblicazione più interessante. Scritte e raccolte durante tutta la vita, e poi riorganizzate per ledizione del 1872, sono il gioiello del Garibaldi scrittore. Non cè leccelsa prosa di un memorialista come Churchill, ma una narrazione avventuroso-patriottica affascinante per spontaneità. Una prosa diretta che, nel descrivere lazione concitata, dà il meglio.
Un libro in cui il curioso di storia può pescare a piene mani, con qualche avvertenza. La memoria di Garibaldi sui fatti va e viene, e non è sempre un caso. A questo va aggiunto che il Generale aveva cultura pasticciata ma non scarsa. Ogni tanto fatti ed episodi sembrano portarsi dietro una eco di letteratura alfieriana e foscoliana che dovrebbe metter sullavviso il lettore: la fantasia mitizzante non gli difettava. Fantasia, non bugie.
Anche con la penna dava battaglia ai «preti malvagi»
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