Cultura e Spettacoli

Anedda si affaccia al «Balcone» e vede se stessa

Cadenze montaliane e rosselliane e una spiccata vena autobiografica caratterizzano l’ultima raccolta di versi

In un esergo della sua recente silloge di versi, Dal balcone del corpo, brutto titolo per un bel libro (Mondadori, pagg. 102, euro 10), Antonella Anedda, approdata alla prestigiosa collana di poesia «Lo Specchio» dopo altre quattro sempre persuasive prove poetiche, sceglie un suggerimento di Kafka come centro ottativo del suo poiein, ma anche della sua esperienza letteraria e forse anche esistenziale: «Fra te e il mondo scegli il mondo»: cioè, credo di capire, lei opta per la condivisione umana del Weltschmerz, il dolore del mondo.
A me non sembra che ciò le riesca del tutto: il suo dettato sorvegliato e molto esperto, folto di metafore, risente di non poche cadenze montaliane e rosselliane: il mondo che lei sceglie è soprattutto il suo mondo, quello dei ricordi o della sua sofferta ma tranquillizzante routine familiare. Del resto l’esplicita tendenza alla soluzione narrativa in molte poesie come base di lancio di eccellenti picchi lirici rivela, appunto, la sovrapposizione di una ragione prosastica e persino giudicante al fluire di una persistente e struggente malinconia al limite dell’angoscia, confortata soltanto dalla risoluta e fantasiosa magia della parola esatta, che lei afferma invece di voler tenere lontana da sé maledicendola, ma nel contempo condividendola con «gli esseri umani». Ad esempio: «l’assenza apre la gola fino al petto/ è una delle tante corone di spine/ che volano a caso sulla fronte degli esseri umani».
Altre volte si verifica un ripiegamento gnomico, forse non propriamente all’autrice congeniale: «Cosa ci rende tanto crudeli gli uni con gli altri?». Fra il Balcone e Dora Markus, capisaldi montaliani, s’insinua l’autrice con la sua esplicita enunciazione: «Fa quello che puoi, racconta la vecchia storia che tuttavia non sai:/ le schegge sono vicine ma il disegno è incompleto». Ma perché giungere fino al cinismo al cospetto della malattia? Forse per esorcizzarlo? «Lei è la mia scaglia di vecchiaia, finalmente scalzata/ le parlerò sempre più lentamente, lascerò gocciare le parole/ fino a evaporare su di lei/scacciandola». La malattia, dunque, come culpa originaria della natura. Respiro europeo, estraneo a linee di tendenza, recita il risvolto di copertina.

È vero tutto ciò? Non ne sono certo.

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