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L'ultima croce

Il club alpino italiano: "Basta crocifissi in montagna, non indicano più una visione comune". E i soci protestano

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«Anacronistiche». Sulle croci di vetta si abbatte, gelido come la tramontana, il verdetto del Cai, il Club alpino italiano.

La tesi non ha la furia cieca della «cancel culture» quando si abbatte sulle statue; il passo è rispettoso, eppure è spinto dallo stesso vento: il politically correct: «La società attuale si può ancora rispecchiare nel simbolo della croce? Ha ancora senso innalzarne di nuove? Probabilmente la risposta è no».

È solo l'ultima diatriba, l'ultima «croce» di una modernità che tutto mette in discussione, tutto vuol cambiare o liberare.

Ieri la questione è stata sviscerata nel corso di un convegno nell'aula magna della Cattolica di Milano, in occasione della presentazione di «Croci di vetta in Appennino» di Ines Millesimi, volume dedicato a questa usanza antica, che si perde nei secoli nel cuore di un'Europa cristiana che da sempre trova nell'ascesi lo slancio di un rapporto intimo con Dio - basti pensare ai santuari mariani e, più di recente, al «Papa montanaro», Giovanni Paolo II.

Se i monti sono luoghi dello spirito, le croci nel tempo diventano segno di passaggio, richiesta di protezione - anche dalle intemperie - e preghiera, devozione votiva. In ogni caso, frutto di una cristianità che a queste latitudini è cultura condivisa. O forse lo era.

E dunque: ha ancora senso? Domanda, e risposta, sono contenute appunto in un breve articolo comparso su «Lo scarpone», il portale del Cai, autorevole associazione che da 160 anni si occupa di studio e tutela dei monti. «Sbagliato rimuoverle, anacronistico istallarne di nuove» asserisce Pietro Lacasella, curatore del portale, annunciando l'evento di Milano. «La croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale» assicura.

La maggior parte delle croci risale al XIX-XX secolo. A volte sono solo due scarne tavole di legno, altre monumenti veri e propri, che evocano la torre Eiffel e possono superare i 20 metri. Difficile censirle tutte, stabilire davvero quante siano e quando siano comparse. Il Club alpino svizzero attesta che sono documentate dal quarto secolo: «Come si legge in un articolo dello storico Peter Danner - spiega un saggio del Cas - la prima croce sulla cima elevata di una montagna in ambito cristiano sorgeva sull'Olimpo (a quota 1951), a Cipro». Il Concilio di Efeso la adottò come simbolo cristiano ufficiale nel 431. «Poco prima del 1100 - prosegue - i crociati eressero croci in legno e in ferro ovunque fossero passati, per indicare la strada a chi li avrebbe seguiti e anche per mostrare alle popolazioni del luogo dove stesse il vero Dio». Documentata, all'epoca, una croce a Roncisvalle, sui Pirenei. Davanti a quella, come ad altre, i pellegrini di San Giacomo si inginocchiavano, chiedevano protezione divina «rallegrandosi al tempo stesso perché, da quel punto in poi, la via sarebbe stata in discesa».

Le croci di vetta suscitavano anche allora l'irritazione di sparuti contestatori. Liberi pensatori, anticlericali. Nel 1928 - lo ricorda il Cas - l'alpinista e insegnante ginnasiale viennese Eugen Guido Lammer, in un libro diventato di culto si scagliava veemente contro questi simboli. «Cosa ha da dire la croce nella solitudine della montagna? - scriveva - Lasciate che risuoni pura la lingua degli elementi, lasciate che la natura parli inalterata alla vostra anima!».

Voci isolate. Oggi invece è il più noto fra gli enti di alpinismo che, con le dovute cautele, prova a «smontare» questa costruzione dell'immaginario europeo. Non tutti però sono d'accordo». Qualcuno accusa il Cai di essere diventato «divisivo», un altro protesta: «La passione per la montagna dovrebbe unirci invece... Io sono socio dagli anni Settanta ma medito di non rinnovare più se continuate così». C'è chi sottoscrive la tesi del Cai, la considera «equilibrata».

Ma un alpinista chiude lapidario: «Si può andare in montagna anche senza tessera».

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