Cultura e Spettacoli

GLI AUTORECLUSI

Per il Giappone l’«hikikomori» è un vero dramma nazionale. La sindrome colpisce i giovani che rinnegano l’etica dei samurai e si chiudono in camera, rifiutando il lavoro e la competizione

Se i giovani giapponesi non fossero così intimamente e tradizionalmente giapponesi assisteremmo a una delle più grandi contestazioni del secolo. C’è un malessere palpabile, intriso di malinconia e rassegnazione, che allerta l’attenzione di sociologi e psicologi in un Paese dove non sono mai sbarcati né Kant, né la rivoluzione sessuale. La risposta di due o addirittura tre milioni di ragazzi nipponici è in linea con le vecchie abitudini all’obbedienza e al conformismo sociale. Si rinchiudono nelle loro stanze, non escono se non di notte, evitano contatti e confronti con il mondo esterno o se lo fanno si riparano dietro la mediazione del computer. Le madri depositano il vassoio con il pasto sulla soglia della loro cameretta che è come un fortino inespugnabile dentro il quale c’è il conforto della solitudine, l’inazione, la riflessione esistenziale, l’avversione al domani e alla competizione.
Questa sindrome è detta hikikomori: parola che deriva da hiku, «tirare», e komori, «ritirarsi», quindi «frenarsi e isolarsi». Ne parla un ricercatore dell’università di Berkeley, Michael Zielenziger, nel libro intitolato Non voglio più vivere alla luce del sole (Elliot, pagg. 389, euro 22, traduzione di Fabio Bernabei). In effetti è una cronaca ragionata e documentatissima di esistenze notturne. Per 250 anni il Giappone ha vissuto come un sakoku, ovvero un Paese chiuso che bruciava le imbarcazioni di qualunque mercante che anche solo per sbaglio veleggiasse nelle sue acque e uccideva ogni connazionale che finisse in mare aperto; «tutto questo fino al 1853, quando arrivò il commodoro americano M. G. Perry che aprì il Giappone al commercio e all’industria».
AUTOSTIMA IN FRANTUMI
A cavallo degli ultimi due secoli Tokyo ha fatto balzi in avanti a tal punto da essere considerata il competitor numero uno dell’America. Ma dal 1990 qualcosa si è incrinato. Qualcosa che ha a che fare profondamente con i valori e le abitudini. Per molti versi è andata in frantumi l’autostima, termine che peraltro non esiste nel lessico nipponico, e questo la dice lunga. I giovani giapponesi che non decidono di lasciare il Paese si rifiutano di andare a lavorare, di andare a scuola o di ricevere qualsiasi tipo di formazione professionale: si nascondono nelle loro camere e chiudono le tende. «Ci sono - scrive Zielenziger - giovani che elaborano le proprie frustrazioni e negano qualsiasi espressione di sé». Confessa Jun, uno degli intervistati: «Ho una freccia puntata proprio dentro di me... La musica e l’euforia dell’esercizio fisico, tutto qui: è così che l’affronto. Di notte puoi uscire mentre gli altri non ti vedono». È un fenomeno in pericolosa crescita. Afferma uno studioso di fenomeni sociali giapponese: «La metà della popolazione non sa neanche quanto sia grave la situazione, l’altra metà la nega».
C’è la storia di Hiro, un diciannovenne allampanato con i capelli lunghi che quasi gli nascondono il viso. Ha lasciato la scuola media all’età di tredici anni e vive a disagio con genitori litigiosi. Solo di rado mette piede fuori di casa. Non ha proprio idea di che cosa fare di se stesso, è un uomo-bambino pallido, sorriso spento. Ogni mattina legge i giornali e nelle sere d’estate guarda alla tv le partite di baseball dei Tokyo Giants. Trascorre lunghi pomeriggi tra riviste e sogni a occhi aperti. Hiro e tanti altri non si ribellano, abituati come sono alla società neo-confuciana che predica l’importanza dell’obbedienza, della disciplina e dell’armonia di gruppo, una società dove l’identità individuale è strettamente collegata all’interdipendenza reciproca.
SCHIACCIATI DAL CONFORMISMO
Invece di scendere in piazza contro la mono-cultura postindustriale, scelgono l’isolamento, «non per indulgenza verso se stessi, ma perché non vedono altra strada». Schiacciati dall’omogeneità e dal conformismo di un Paese tanto audace esteriormente da costruire una propria Torre Eiffel, da imparare a fare la pizza e a giocare a golf, ma che non ha mai affrontato temi come l’insoddisfazione politico-industriale o il mutamento dei costumi sessuali.
Si frammenta, secondo Zielenziger, anche «la tradizionale struttura familiare. Il sistema educativo nipponico, che privilegia l’apprendimento meccanico piuttosto che il pensiero critico, viene messo in discussione come mai prima d’ora. Oggi i giovani avvertono che in un’epoca globale le vecchie regole non funzionano più». È il cortocircuito della nuova generazione. Il rischio che questa resa possa avere una deriva occidentale è teoricamente basso. Ma solo teoricamente, visto che assistiamo a un non raro barricarsi in casa da parte di giovani occidentali che si dicono demotivati dalla politica, dal lavoro, dagli obblighi della competizione. E impauriti dal confronto a tal punto da preferire, anche nelle relazioni amorose, il filtro dello schermo, delle chat.
C’è poi in Giappone un’altra forma di hikikomori. Viene chiamata anche «lo sciopero dell’utero», vista l’impressionante denatalità del Sol levante. Kiyoko è una ventottenne che ha studiato anche in America, è il simbolo della donna giapponese di inizio XXI secolo. È dirigente marketing Toyota ed è fermamente decisa a non sposarsi, tantomeno a fare figli. Vive a casa dei genitori, come molte altre donne dai trenta ai quarant’anni. La stampa nipponica le definisce parasaito, ossia single parassite. Dice il sociologo Yamada Masahiro: «Sono donne che fanno molti acquisti, partono per vacanze costosissime all’estero e preferiscono vivere il presente piuttosto che progettare una famiglia». Quasi il 90 per cento delle giapponesi attorno ai trent’anni e il 60 per cento delle quarantenni sono delle parasaito: lo dice il ministero della Sanità di Tokyo. Cresce il numero dei «dolci di Natale», buffa e vecchia espressione che indica quelle venticinquenni non sposate, paragonate alla torta natalizia che dopo il 26 dicembre nessuno vuole comprare.
UNO SCIOPERO «UTERINO»
Esistono anche ragioni pratiche, dietro lo «sciopero dell’utero». Gli uomini hanno ancora abitudini feudali e non si occupano dei figli né aiutano in casa. Gli asili e le scuole costano moltissimo. Secondo calcoli governativi crescere un figlio richiede il 16 per cento di ciò che spende una famiglia per vivere, e il 20 per cento se va alla scuola media. Per avere lezioni di pianoforte si sborsano fino a cento dollari l’ora. Dice Kiyoko: «Le donne sono ancora collocate sulla “corsia per le mamme”, cioè si aspetta che lascino il lavoro quando rimangono incinte. Noi siamo cambiate, ma le consuetudini proprio no».

Fa notare un sociologo che «i figli nati fuori del matrimonio e la condizione di madre single sono disonorevoli come lo erano nel New England puritano raccontato da Nathaniel Hawthorne, l’autore della Lettera scarlatta».

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