Cultura e Spettacoli

Bagatelle meridionali

«Fisimario napoletano» di Ruggero Guarini: il piacere dell’aneddoto e del paradosso

«Fisima» è parola che non si usa quasi più. Invece un tempo, soprattutto nel Meridione, era il termine più comune per indicare fissazioni, capricci, idiosincrasìe, insensatezze e magari idee balzane. Idee, però, del tutto personali e singolari. Perché la sfumatura che differenzia la fisima dai suoi sinonimi è tutta nel carattere assolutamente individuale, nel marchio autoriale che emerge nelle cose serie come nelle futili. Per questo, il titolo che Ruggero Guarini ha dato al suo ultimo libro, Fisimario napoletano (Spirali, pagg. 443, euro 25) è perfetto.
Come in un surreale film americano di qualche anno fa, Essere John Malkovich, in cui il protagonista poteva entrare nella testa del famoso attore e viverne i pensieri e le sensazioni, leggendo i capitoletti del Fisimario si entra nella testa di Guarini, e l’operazione, anche se non offre il brivido dovuto alla violazione della privacy, è stimolante e divertente. Le mille e diverse letture dell’autore, la sua curiosità colta e la sua napoletanissima capacità di raccontare, trasformano qualunque episodio storico, mito, vicenda attuale, in un aneddoto o una favola che significa sempre qualcosa di più di ciò che dice, intreccia temi, collega presente e passato. L’effetto principale dell’entrare nella testa di Guarini non è solo curiosare nella sua bottega letteraria, che è anche una piccola bottega degli errori e degli orrori in cui si scoprono testi dimenticati, interpretazioni canoniche rovesciate (vedi la rivoluzione napoletana del ’99) e pettegolezzi gustosi, come l’ipotesi sul mancato incontro tra Croce e Montanelli. Questo basterebbe per consigliare il libro ai lettori, ma non a rendere giustizia al suo autore. L’effetto principale è l’essere contagiati da una visione critica assolutamente libera e personale.
Purtroppo la tradizione intellettuale di cui Guarini è uno dei rari esemplari, è in via di estinzione. Il Meridione d’Italia (con Napoli e la Sicilia in prima fila) era, fino a cinquant’anni fa, ancora fitto di persone che si dedicavano ai propri studi in solitudine, collezionando autori ignoti ai più, alimentando interessi a volte peregrini, con qualche venatura di irregolarità e persino di sottile follia; fisime, appunto, che potremmo ricollegare alla corda pazza di Pirandello e Sciascia. Dilettanti colti e appassionati, spesso grandi affabulatori, capaci, come Guarini, di parlare del passato con quel tocco di scanzonata confidenza che lo rende vivo. Forse era proprio l’isolamento intellettuale, l’estraneità alla società dei colti e alle sue regole, a permettere questa libertà critica.
Scorrere le pagine di Fisimario napoletano mi fa lo stesso effetto di quando, in qualche sperduto paese siciliano, scoprivo, nella casa di un maestro o di un notaio, il tesoro segreto di una biblioteca sorprendente e fastosa. Non che Guarini sia un solitario, sepolto tra i libri ed esiliato dal mondo; anzi è esattamente come traspare dagli scritti raccolti nel suo libro: una persona che ribolle di pensieri e idee che ama condividere. Ma è difficile collocarlo in un mondo di appartenenze, come è difficile ricondurre le sue riflessioni critiche e i suoi paradossi a categorie prestabilite. Anche quando racconta di aver frequentato il gruppo dei comunisti napoletani degli anni Cinquanta, quella narrata da Ermanno Rea, al massimo lo si può immaginare (come lui stesso ricorda) a contendere ragazze a Renato Caccioppoli, vagabondando di notte e fermandosi nelle osterie a bere e discutere di Stalin.
Ma la città, nel libro, c’è davvero o è solo uno sfondo accessorio? La Napoli di Guarini non è una città vissuta, è una grande metafora letteraria, filtrata da una trama di testi e di ricordi. I suoi diversi significati vengono rivisitati nella loro sostanza di archetipi, scartando la massa di stereotipi che si è accumulata nei secoli. Il mito edenico di Napoli, per esempio, apre il libro, ma l’autore lo ripropone attraverso la citazione di una citazione, riportando un passo del Dizionario filosofico di Voltaire in cui si racconta di come Federico II, arrivato a Gerusalemme, non potendo riconoscere nel deserto pietroso che aveva davanti la terra promessa, si chiedesse perché mai Mosè non avesse guidato il suo popolo verso un luogo davvero paradisiaco.

Napoli, appunto.

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