Cultura e Spettacoli

Barbera, l’uomo che sfidò Disney

Barbera, l’uomo che sfidò Disney

«Avevo già compiuto 82 anni quando il Who’s Who decise di accorgersi che esistevo. Fra le domande che mi posero i solerti compilatori, ci fu: “a chi va la sua massima ammirazione?”. Risposi “a mia nonna Francesca Calvacca, che arrivò a Manhattan da Sciacca, Sicilia, nel 1898. Tirò su 5 figli e aiutò mia madre a far crescere me e i miei due fratelli. A parte me, nessuno in famiglia sapeva disegnare, ma mia nonna era dotata di un gran senso dell’umorismo. Far crescere una masnada di 9 siciliani richiede un senso dell’umorismo esagerato, se non altro per evitare un bagno di sangue. Mi piace pensare di avere ereditato un po’ del suo spirito». Joseph Barbera, figlio illustre di Little Italy scomparso lunedì a 95 anni in California, era uno dei talenti esagerati che diedero massimo lustro all’epoca d’oro del cinema d’animazione hollywoodiano. Viene spontaneo tentare di inquadrare Barbera nel panorama dominato dalla figura geniale di Walt Disney, più vecchio di dieci anni. I due si sfiorarono, in principio. Poi il ragazzo di Little Italy portò l’attacco al cuore della Disney, ramazzando ben 7 Oscar per il miglior cortometraggio animato dell’anno. Personalmente i due si schivarono per anni e di fatto, quando Barbera da regista per la MGM si trasformò a sua volta in imprenditore autonomo, i due si ritagliarono precisi ambiti di reciproco rispetto.
Da una parte il mago dei sogni animati, con i suoi animali parlanti con giudizio, le fiabe europee a suon di musica, le magie del verosimile a tutti i costi: sontuoso, barocco, visionario, in perenne tensione estetica e narrativa. Dall’altra il pragmatico inventore del cartoon televisivo: centinaia di mezz’ore a uso e consumo dell’America teledipendente, con brillanti attori animati ipercinetici dove i disegni erano ben caratterizzati su voci prestate da caratteristi brillanti. Al suo fianco il compare di sempre, l’irlandese Bill Hanna, che non sapeva tenere la matita in mano ma aveva un dono per il dosare ritmo e centellinare i fotogrammi. A Joe Barbera il compito di schizzare i personaggi, presentare i progetti agli sponsor, chiudere gli accordi. Artista moderno divenuto business man per necessità, dopo che la MGM aveva chiuso il reparto cartoni animati che con Tom & Jerry aveva fruttato alla Casa 7 Oscar e 14 nomination, più di qualsiasi topolino o paperino del vicinato.
Nei nostri frequenti incontri a Hollywood Barbera parlava poco degli altri colleghi, e di Disney in particolare. Fra i due c’era in comune lo spirito imprenditoriale e molte differenze. L’impressione era che Barbera, dotato di un ego piuttosto consistente, fosse consapevole di aver scritto una pagina parallela e altrettanto importante. Era chiaro che il ragazzo di Little Italy godeva come un matto nell’aver dato del filo da torcere al suo mito di gioventù. Tanto più che il mago della fantasia di Burbank aveva poca confidenza con la matita, mentre Joe Barbera era un talento smisurato, virtuoso del disegno.
Vignettista in erba, fu capace di mollare il posto fisso in banca pur di lasciar correre la fantasia dietro al sogno di tanti ragazzi dell’epoca: andare a Ovest e realizzare il sogno della sinestesia delle arti. Combinare suoni, colori e disegni sullo schermo per dar vita a un mondo di fantasia. Fu proprio di Disney il primo film animato che colpì alla fine degli anni Venti la fantasia del giovane Barbera: The skeleton dance. E quando dopo la visione miracolosa gli scrisse ammirato, ne ebbe in risposta una lettera in cui Walt Disney gli rispose preannunciandogli una prossima visita a Manhattan. «Non mi richiamò mai, e di questo ancora ringrazio Dio. Perché avrei mollato tutto e sarei entrato nel suo staff, diventando un suo uomo di punta». E invece.
Arrivato a Hollywood, la storia dice che Barbera fece subito coppia con quel ragazzotto tarchiato irlandese, William Hanna, e che rapidamente i due scalarono tutta la trafila da assistenti a registi: una coppia perfettamente fusa sul lavoro, e con una vita privata totalmente indipendente, stile Laurel & Hardy. Dirigendo a quattro mani, la strana coppia inventò a getto continuo le storie del topo Jerry e del gatto Tom. Un’intuizione che seguiva il copione delle slapstick a tutta azione tipica della terza parrocchia del cartoon, la Warner Bros, del leprotto Bugs Bunny allora già segno del rinnovamento sul classicismo disneyano. L’intuizione di Barbera e socio era quella di conferire ai personaggi vitalità animalesca priva di parole, puntando tutto sulla recitazione ipercinetica; 114 cartoni dopo, la scena hollywoodiana si era arricchita di una nuova saga che resta una delle perle dell’immaginario disegnato. Dopo vennero gli orsi Yogi, i Braccobaldi, le sit-com de Gli Antenati e dei Pronipoti, che a partire dal 1960 crearono i primi serial animati per un pubblico adulto in prime time.
Di queste storie dei pionieri del cartoon si parlava volentieri negli ultimi anni col vecchio Joe, Mr. B. per tutti i suoi fedelissimi superstiti della vecchia fabbrica dei cartoni. Negli ultimi anni, lucido e piacione come solo uno sfacciato italiano di successo sa essere, veniva venerato dalla sua piccola corte come un monumento vivente. Il papà di Scooby-Doo fino ai 90 anni aveva continuato ad andare in ufficio, finché in quello accanto anche Bill Hanna veniva a sistemare le proprie carte. Quando il socio mancò, alla domanda di come si sentisse dentro non volle commentare. Abbozzò e cambiò discorso. Il siciliano battagliero, abituato a progettare il prossimo film, non poteva ammettere di aver perso una gamba, e di vedersi inesorabilmente restringere l’orizzonte. Neppure a novant’anni suonati. L’ultimo Barbera manteneva anche vivo il contatto con l’Italia, servendo da Presidente onorario del festival Cartoon on the Bay, da dieci anni manifestazione di punta organizzato sulla costiera amalfitana da Rai Trade. L’edizione dello scorso aprile aveva ospitato l’anteprima dell’ultimo cartoon scritto e diretto dal vecchio Joe: una rimpatriata di Tom e Jerry, The Karate Guard. Niente di memorabile, ma come sempre sgargianti i colori, inesorabile il ritmo, e fortissimo il richiamo al déjà vu collaudato dei cartoni classici e delle comiche dei Mack Sennett e dei Chaplin.
D’altra parte il primo studio della ditta Hanna-Barbera era ospitato proprio nei locali di Highland Avenue in cui si giravano le comiche di Charlot.

In un’ellissi temporale che fonde i cartoon dell’epoca d’oro con le radici stesse del cinema, Barbera ci ha lasciato rinnovando la messa in scena di un eterno ritorno, il classico ineffabile triangolo cane-gatto-topo.

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