Stile

La bellezza di una vita al terminal

Francesco Maria Del Vigo

È«il» luogo. Altro che non luogo. Con il massimo rispetto per il termine coniato nel 1992 dall'antropologo Marc Augé. L'aeroporto è un luogo, in taluni casi lo è persino di più di quello nel quale si deve arrivare. Di luogo. Non è più un transito, un corridoio, un ballatoio addobbato a lunapark. È un approdo. L'aeroporto è la meta, perché è la sospensione, l'attesa, il sabato del villaggio del viaggiatore. La speranza di un arrivo, di una vacanza esotica o un incontro di lavoro appagante. In aeroporto sai già che starai bene, che troverai quello che ti aspetti, simile - ma non uguale - a quello che hai già visto tante volte in altri scali.

Infondo arrivare è solamente una scusa per partire e, quindi, andare in aeroporto. E - a dirla tutta - ormai non c'è neppure più bisogno di ingannare se stessi, perché ci si può andare solo per stare lì, senza dover salire su un aeroplano e correre il rischio di restare chissà quante ore senza fumare una sigaretta e avere la certezza di dover condividere una gelida capsula con qualche maleducato passeggero. E poi in aeroporto c'è (quasi) tutto quello che un uomo possa desiderare. Ci sono i giornali di tutto il mondo; i ristoranti stellati che offrono ogni tipo di vivande cosìccome i fast food che fotocopiano panini; i negozi di vestiti, di cianfrusaglie locali e pure di gioielli dei marchi internazionali. Negli scali internazionali più alla moda capita di trovare persino delle spa e degli alberghi a ore (non pensate male...) dove poter riposare tra un volo e l'altro. Sono il simbolo della velocità, ma allo stesso tempo racchiudono piccole oasi di pace. Se un alieno particolarmente rispettoso del diritto aeronautico decidesse di adagiare il suo disco volante su una pista qualunque, probabilmente si farebbe un giro in aeroporto e poi risalirebbe sulla sua astronave. Convinto di aver visto un piccolo mondo. Perché l'aeroporto è un piccolo ecosistema, la mimesi di un pianeta compiuto.

Certi scali, travisando un po' i versi di Paolo Conte, hanno «la sensualità delle vite disperate». Ognuno è a proprio agio, in aeroporto: il passeggero spiaggiato (negli aeroporti, ci avete mai fatto caso?, si siedono tutti in terra. Per poi volare in aria) come il manager incravattato, la modella che vola tra una passerella e l'altra come la signora in tuta da ginnastica. Perché l'aeroporto è un frullatore che mescola tutto, che frulla esistenze, shakera stili, cuoce e fonde strati sociali diversi, unisce il povero e il ricco, il turista in cerca di riposo e il manager stressato, la fuga e il ritorno, il bacio di addio e l'abbraccio che ricongiunge.

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