Brando e Clift, il mostro e l’eroe

Nonostante la prepotente presenza dei protagonisti, I giovani leoni è un film corale, che tende a darci una visione generale dell’ultima guerra tra i tedeschi e gli anglosassoni. Copre un periodo che va dal ’39 al ’45 e spazia tra Germania, Francia, Stati Uniti e Africa, mostrandoci il diverso comportamento dei militari e dei civili da una parte e dall’altra. \ Il tenente Christian (Marlon Brando) non è un nazista, è soltanto un tedesco il quale ritiene che Hitler in fondo faccia del bene al suo popolo. Recuperabile alla democrazia, pertanto. I tentativi per metterlo sulla buona strada durano dal principio alla fine del film. Comincia, ancor prima che scoppino le ostilità, l’americana Margaret che invano gli spiega i pericoli delle dittature. L’esperienza in Francia è un altro buon insegnamento sprecato: Christian vede bene con quali metodi la Gestapo tenti di piegare la resistenza francese, ma si rifugia nel pensiero che una cosa è la polizia e un’altra cosa sono i combattenti. Va perciò a fare un po’ di vera guerra in Africa: esperienza atroce ma non decisiva. Salvata per un pelo la pelle, ripara a Berlino. Le case distrutte, i bambini senza gambe e la cattiveria senza fondo della signora Hardenburg gli riempiono l’animo di disgusto. Ma invece di redimersi va a Parigi, dove sfiora la salvezza per opera della soave Françoise. Sprecata anche questa occasione, non gli resta che seguire il destino del Terzo Reich fino alla fine. Stanco, sbandato, affamato lo vediamo per ultimo capitare in un campo di concentramento il cui comandante, un capitano delle SS, è in preda al tormento di non avere i mezzi per liquidare le svariate migliaia di prigionieri ebrei prima dell’arrivo degli alleati. È il colpo di folgore sulla via di Damasco. Christian va nel bosco, spezza il fucile e così finalmente è salvo. Cioè è salva la sua anima, perché il suo corpo, crivellato dal mitra del soldato Michael, va a finire in una pozzanghera \ Noah infine, il soldato ebreo che oscilla tra caparbietà e rassegnazione, è una figura nuova, complessa e approfondita, che ha trovato in Montgomery Clift un interprete di eccezionale bravura. Se si eccettua il bellissimo brano della guerra in Africa, le scene più alte del film sono legate a lui: il primo incontro con Hope, la visita al padre di lei nel paesello del Vermont, il colloquio in carcere con la moglie.

Senza contare che quasi esclusivamente per merito suo si salva dal grottesco la lunga e coraggiosa sequenza delle persecuzioni che l’ebreo Noah subisce in caserma da parte dei superiori e dei camerati americani.
Giuseppe Berto
pubblicato su «Rotosei»
il 18 aprile 1958

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