Breve ritratto di un Paese in declino

Ho letto su Panorama brani di un rapporto sull’Italia di due professori universitari americani, di cui va citata la domanda conclusiva: «Ma per quanto tempo ancora l’Italia potrà permettersi di aspettare a mettere sotto controllo le sue finanze?». Conseguentemente Panorama titola: «L’ultimo treno per l’Italia». Ammesso che ci sia tempo per salirvi.
Non c’è dubbio, siamo messi assai male. L’aspetto economico-finanziario è certamente il più evidente, ma è tutto il contesto nazionale che allarma. Pure in presenza del grande pasticcio delle pensioni, le lettere di diversi lettori mi spingono oggi a soffermarmi sull’insieme della situazione italiana. Hanno colpito i lettori taluni giudizi severi e il tono quasi disperante dei miei ultimi scritti. Un lettore romano chiede: «Ma davvero non usciremo dalla geenna in cui siamo precipitati?».
Il mio pessimismo è figlio di una grande volontà, pur con poche speranze, di affrontare il caso italiano con idee giuste e forti. L’ho scritto più volte: non c’è più posto per compromessi e mezze misure. Guardiamoci intorno: siamo pieni di guai in tutti i settori. Proviamo ad elencarne alcuni, i più visibili. C’è una prima osservazione, fondamentale: s’è diffusa in Italia una cultura che potremmo definire dell’irresponsabilità, che si traduce in comportamenti conformi. Proprio così: il complesso delle manifestazioni della vita materiale e sociale della maggioranza del nostro popolo manca di senso di responsabilità, c’è disimpegno verso i doveri comunitari, i contegni, i modi di fare, i comportamenti fanno a pugni con quei valori che costituiscono il tessuto essenziale di una società sana e resistente. In un articolo dal titolo «I miracoli che servono all’Italia», su Repubblica, Piero Ottone ha scritto che occorre cominciare dal basso, dalle piccole cose, per avere un’Italia diversa, capace di risalire la china. Pienamente d’accordo. È con i comportamenti comuni di tutti i giorni che si costruisce quella cultura, chiamiamola così, ch’è la base di una concezione della «polis», di una comunità ispirata a equità, giustizia, civiltà. Riconosciamolo: abbiamo fatto molti passi indietro in questi ultimi vent’anni. Questo tipo di cultura che domina l’Italia ha avuto effetti negativi, spesso sconvolgenti, in tutti i settori della vita nazionale: la scuola innanzitutto, che ha perduto le qualità e lo spessore necessari per la formazione dei giovani; e le istituzioni, tutte degradate e lontane ormai dalla considerazione e dalla fiducia dei cittadini (e qui va detto onestamente che non ne sono responsabili solo i politici, ma anche quanto riverbera dalla società sulle istituzioni).
Da tutto ciò è venuto anche uno scadimento della classe dirigente, a cominciare da quella politica palesemente mediocrizzata, il che ha portato a quel fenomeno, soprattutto italiano, che è l’antipolitica, pervenuto a livelli mai raggiunti nella storia del nostro Paese. Si cita in genere il libro di Petruccelli della Gattina, ch’è dell’Ottocento, I moribondi di palazzo Carignano (l’autore, patriota meridionale, fu deputato nel 1861), per testimoniare l’antica esistenza di un cattivo rapporto tra opinione pubblica e politica, ma non c’è paragone con quel che accade oggi.
Uno degli effetti preoccupanti di questo declino è la pessima considerazione di cui godiamo all’estero, che ci pone quasi ai margini della comunità internazionale. Siamo stati tra i fondatori della Comunità europea, ma oggi il nostro credito in quel mondo politico ed economico tocca un punto molto basso, come del resto in tutto il contesto internazionale.
Conclusioni? Il sistema-Italia ha bisogno di una cura da cavallo. Servono poco certe riformette (legge elettorale, liberalizzazioni, ritocchi al sistema giudiziario, rabberciamenti a quello scolastico etc.), occorre un quadro di insieme profondamente diverso, che assicuri stabilità, garantisca i cittadini ma anche li responsabilizzi; e soprattutto non deve mancare una governance solida e sicura. Abbiamo avuto due Repubbliche, la seconda disastrosa, bisogna costruirne una terza.

Lo richiede una concezione genuina e corretta della democrazia.

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