Controstorie

C'è aria di cambiamento ma Lukashenko non cede

Il dittatore vuole il sesto mandato, la protesta però cresce ogni giorno e potrebbe abbatterlo

C'è aria di cambiamento ma Lukashenko non cede

I «bisonti» sono cresciuti e si sono moltiplicati. Scendono in piazza brandendo pantofole per schiacciare lo «scarafaggio», l'ultimo dittatore d'Europa, vecchio arnese post sovietico a capo della Bielorussia dal 1994 e determinato a imporsi per la sesta volta consecutiva alle elezioni del 5 agosto. Alexander Lukashenko lo ripete dal 2005 che Minsk non sarà mai Kiev, piazza dell'Indipendenza non si trasformerà in una nuova piazza Maidan: «Ci provino e in cinque minuti il problema sarà risolto», diceva. Si riferiva allora all'organizzazione giovanile clandestina Zubr, il bisonte appunto, animale simbolo delle foreste bielorusse. Eravamo stati una settimana insieme a quei ragazzi, ispirati dai coetanei che avevano già mobilitato le piazze in Serbia, Ucraina, Georgia, Kirghizistan.

Il fondatore del movimento era Aliaksandr Atroshchankau, aveva 22 anni. Sfidava il Kgb (già, a Minsk si chiama ancora così) e quindi la galera organizzando dimostrazioni lampo, siti pirata, volantinaggi nell'ora dello struscio serale, quando la città fa sentire la sua colonna sonora, migliaia di tacchi a spillo piantati come scalpelli sul porfido dalle bellezze baltiche, che Lukashenko ha proposto di «nazionalizzare» per calmierare l'export di modelle. I ragazzi salivano sui tetti, anche su quello della sede del Kgb, per lanciare samizdat (fogli clandestini) sui passanti, gli agenti partivano alla caccia, ma la via di fuga era predisposta alla perfezione. «Dobbiamo mobilitare i giovani per fare crollare la dittatura», diceva Aliaksandr, «fare capire che è meglio vivere pericolosamente che sopravvivere da vigliacchi».

Poi, rielezione dopo rielezione, è finito regolarmente in carcere, come migliaia di attivisti, giornalisti e oppositori. Ma quei bisonti hanno aperto la pista alla «rivoluzione delle ciabatte», il 19 giugno la protesta per le strade di Minsk, dopo l'arresto del maggiore candidato anti Lukashenko, si è sviluppata per quattro chilometri. Viktor Babariko, a capo della succursale bielorussa della russa Gazprombank, è stato incarcerato con l'accusa di esportazione illegale di valuta; anche il figlio Eduard, responsabile della campagna del padre, è finito dentro. La stessa fine è toccata al leader della mobilitazione (un ex «bisonte») e anche lui candidato alle elezioni, lo youtuber Sergei Tikhanovsky. I suoi 235mila followers sono soprattutto operai e minatori. È stato caricato su un furgone a Grodno, accusato di disordine pubblico. La moglie Svetlana corre ora al suo posto. «Questa volta la situazione è molto seria», dice Valeriya Kostyugova, direttore di Nasha Niva, il maggiore media on line indipendente: «Un cocktail esplosivo determinato dalla crisi economica, dalle pressioni russe, ma soprattutto dall'emergenza Covid. Lukashenko potrebbe essere il primo leader al mondo a cadere a causa del Covid, ma da qui alle elezioni può accadere di tutto, anche un colpo di coda sanguinoso del regime». Lukashenko non ha mai ordinato il lockdown, ha definito la pandemia una «psicosi» da combattere con vodka e saune. Il 9 maggio ha anche celebrato, a differenza di Vladimir Putin, il giorno della Vittoria dell'Armata rossa. Ma la Bielorussia (circa nove milioni di abitanti) ha registrato circa 70mila casi, contro ad esempio i 29mila della confinante Polonia che conta 39 milioni di abitanti. E la gente sta ora abbandonando quell'apatia e conformismo forse più radicati che in Russia; nelle strade scandiscono lo slogan «Psycho 3%», che è la percentuale di gradimento del leader pubblicata da un sondaggista. Lukashenko scatena le forze speciali a pestare e arrestare i manifestanti, ma anche molti agenti postano foto sui social mostrando l'irriverente cartello. «L'Occidente dovrebbe fare molta attenzione agli avvenimenti delle prossime settimane», dice Franak Viacorka, giornalista che trasmette da Minsk per Radio Free Europe. Lukashenko è sopravvissuto alternando abilmente il ruolo di possibile alleato dell'Occidente a quello di spalla del neoimperialismo putiniano. Così che l'Europa non è mai andata oltre blande sanzioni e non si è seriamente attivata contro la soppressione dei diritti e della libera informazione. «Il convitato di pietra di questa situazione è Putin», dice Monika Bickauskaite, esperta di sicurezza internazionale a Varsavia. «C'è un piano di attivare una confederazione dei due stati entro il 2022, e ciò offrirebbe a Putin la possibilità di aggirare la costituzione russa che gli impedisce di ricandidarsi nel 2024. La costituzione andrebbe integrata a quella bielorussa, che non pone limiti alla rielezione, come vediamo con Lukashenko». Per il Cremlino significherebbe eliminare un comodo stato cuscinetto per l'Occidente e far coincidere i propri confini con quelli della Nato in Lituania, Lettonia e Polonia. «Lukashenko è stato il cavallo di Troia di Putin, si è prestato al gioco, non ha ostacolato la russificazione forzata della Bielorussia da parte dei mezzi di propaganda del Cremlino. Fanno leva da una parte al panslavismo e dall'altra al ricatto delle forniture di energia gratuite se vi fosse una completa integrazione».

Ma ora, in campagna elettorale, Lukashenko denuncia il tentativo di golpe da parte dei «burattinai di Mosca», fa arrestare il concorrente oligarca della russa Gazprombank che potrebbe essere il nuovo cavallo del Cremlino.

Ma, secondo Monika Bickauskaite, a Putin non dispiacerebbe una Bielorussia nel caos, «per attivare uno scenario stile Crimea».

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