Roma

«C’è un bambino in un pozzo!» Vermicino, la prima tragedia tv

Alle 19 del 10 giugno 1981 iniziò lo psicodramma che tenne tutta Italia incollata al televisore

Venticinque anni sono trascorsi dalla tragedia di Vermicino, vicino a Roma, ma quella tragedia gli italiani non l’hanno dimenticata. Per tre giorni tutta la nazione, incollata davanti alla tv, seguì l’agonia di Alfredino Rampi.
La vicenda del «pozzo maledetto» cominciò alle 19 del 10 giugno 1981 e subito i giornali radio dettero grande risalto alla notizia. Il bambino era andato con i genitori, Nando Rampi e Franca Bizzarri, nella casa di campagna nei pressi di Frascati. Rincasando il padre non lo trovò. Immediatamente scattarono le ricerche. I lamenti provenienti da un pozzo artesiano portarono un sottufficiale della polizia alla tragica scoperta.
Le prime ore delle operazioni di soccorso trascorsero nell’incertezza della via migliore da seguire. Fu calata al bimbo una tavoletta legata a una corda che restò incastrata e che comportò in seguito difficoltà insormontabili per far giungere ad Alfredino soccorsi di ogni genere. Intanto, un microfono sensibilissimo fu calato ad alcuni metri di distanza dal bimbo. E così a tutti gli italiani fu possibile ascoltare per quasi due giorni le invocazioni di aiuto di Alfredino, mentre da quel momento ebbe inizio il drammatico dialogo tra il piccolo e il vigile del fuoco Nando Broglio. Non si lasciò niente di intentato: un «uomo ragno» cercò di rimuovere la tavoletta e si cominciò a scavare con una trivella. E intorno, tanta gente, venuta non solo da Roma ma anche da città vicine nella speranza di vederlo uscire salvo. Intanto ad Alfredo veniva fatto bere saccarosio da una flebo calata giù nel cunicolo. Anche il presidente Sandro Pertini si recò sul luogo della tragedia e volle parlare con il bimbo. Poi, all’ottimismo che aveva preso un po’ tutti i presenti nel pomeriggio del secondo giorno di soccorsi, quando la trivella era scesa a 31 metri, a poco a poco si sostituì l’angoscia. Alfredino era scivolato di altri 30 metri. E tutto avvenne in un’interminabile diretta Rai.
Vani furono anche gli sforzi dei volontari Angelo Licheri e Donato Caruso, che si calarono nel pozzo e più volte cercarono di legarlo. All’alba del terzo giorno il bimbo morì. E subito seguirono le polemiche per la conduzione dei soccorsi con il lancio di accuse di imperizia. E non fu risparmiata neppure la madre di Alfredino, accusata di essersi allontanata per cambiarsi d’abito, di non essersi «disperata abbastanza» in maniera evidente. Seguirono perfino telefonate a casa Rampi in cui si chiedeva se fosse vero che il bimbo non era figlio di Nando Rampi e se fosse vero che era stato il padre a gettarlo nel pozzo per liberarsi di un bambino cardiopatico dalla nascita. Seguì, poi, un processo contro l’operaio responsabile dello scavo Elio Ubertini e il proprietario del pozzo Amedeo Pisegna, che furono assolti dall’accusa di omicidio colposo.

Elveno Pastorelli, allora comandante dei vigili del fuoco di Roma, che assumendosi una responsabilità che sembrava non competere a nessuno e che coordinò i soccorsi, fu invece scagionato in istruttoria.

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