Cultura e Spettacoli

Cabeza de Vaca alla scoperta dell’America

È il 1528 e, mentre Cortés è acquartierato con le sue truppe nei palazzi di Montezuma, un’altra spedizione di conquistadores punta sulle Americhe: 578 uomini al comando di Pánfilo de Narváez, un capo vecchio, obeso e credulone, patetico emulo di Cortés, alla ricerca di un’altra Tenochtitlán, un’altra città d’oro, nascosta nelle foreste della Florida, 578 corazze smaglianti, su cavalcature coperte di rutilanti gualdrappe. Pensano di poter condividere la gloria di Cortés e della sua orda di briganti... Invece vanno incontro alla più completa disfatta. In duecento muoiono subito a Cuba e poi, giorno dopo giorno, sospinti dalle maree e dai venti, ora sulla costa, ora verso il largo, stremati dalla sete e dal sole implacabile, restano in quaranta. Quando, verso la fine di novembre del 1528, quel che rimane della spedizione fa naufragio in Florida, sul litorale del Golfo del Messico, probabilmente presso l’attuale Galveston, sono sopravvissuti in quattro.
Uno di questi è Alvar Nunez Cabeza de Vaca che, nel corso di otto anni, riuscirà a guidare i suoi sfortunati compagni attraverso l’intero continente. Un viaggio lunghissimo e terribile, che apre una via successivamente seguita da altri esploratori, rivelando l’America all’Europa, ma anche, e soprattutto, un’esperienza salvifica. Partito con la forma mentis e l’abbigliamento di un gentiluomo spagnolo del Cinquecento, Nunez deve spogliarsi, dapprima fisicamente, dopo, culturalmente, di ogni retaggio europeo. Raggiunta la totale nudità interiore, Cabeza de Vaca non è più un guerriero, ma una specie di santo francescano che vuole insegnare al mondo «il modo di conquistare con la dolcezza, non con le stragi».
Tornato in patria, scrive al suo re, e gli racconta la sua storia, una storia che oggi torna a essere narrata nella rielaborazione dello scrittore Haniel Long: La meravigliosa avventura di Cabeza de Vaca (Adelphi, pagg. 68, euro 8; introduzione di Henry Miller, traduzione di Hélène Benazzo Boesch): Long ne ha conservato il nucleo essenziale, sviluppando però considerazioni che mai Cabeza de Vaca avrebbe potuto riferire al sovrano e che, pure, sembrano assolutamente fedeli al suo pensiero. Long lo fa parlare come se non avesse paura del suo re e della sua epoca, trasformando la storia di una disfatta coloniale in un grandioso trionfo spirituale.
Nel corso del tormentato viaggio, Nunez, per sopravvivere, è costretto a esercitare due mestieri: quello di venditore ambulante - percorrendo l’itinerario tra la costa e l’interno e favorendo lo scambio di oggetti tra gli indios - e l’altro di guaritore. Adotta i mestieri degli indiani, si fa indiano egli stesso scoprendo in sé una forza spirituale dimenticata, perché sepolta dai gravami delle convenzioni sociali e della civiltà europea. Incredulo, egli per primo, compie miracoli e, come lui, i suoi compagni. Tanto che gli stessi indios, i quali li hanno dapprima costretti in schiavitù e utilizzati come bestie da soma, adesso li chiamano «coloro che guariscono». Poteri che parrebbero imputabili al recupero di una animalità perduta.

O, per darne un’interpretazione cattolica, alla francescana consapevolezza del fatto che «l’uomo tanto vale quanto vale dinanzi a Dio; e non di più».

Commenti