Calcio

Campione vero hai insegnato a tutti l'etica del coraggio

Grande giocatore, grande allenatore e padre di 6 figli. Piegato dalla recidiva di una leucemia mieloide acuta che l'aveva colpito nell'estate del 2019

Campione vero hai insegnato a tutti l'etica del coraggio

Il tweet di Clemente Mimun, direttore del Tg5 e tifosissimo laziale, lanciato qualche giorno fa, dal testo lapidario («Forza Sinisa»), ci ha preparati al peggio e all'angoscia della tragica notizia. Che segna in un giorno livido di fine anno la resa di un vero guerriero della vita prima che del calcio, piegato dalla recidiva di una feroce leucemia (del tipo mieloide acuta) scoperta nell'estate del 2019 e ritornata all'assalto nel marzo scorso. Sinisa Mihajlovic, 53 anni esibiti con spavalderia fino a qualche mese prima, cittadino italiano nato a Vukovar ma cresciuto nel borgo vicino di Borovo, da madre croata e padre serbo, si è comportato fino in fondo a questi giorni complicati, da valoroso soldato. Ha «rispettato la malattia», come confessò in una commovente conferenza stampa il 13 giugno del 2019 in quel di Bologna, ma l'ha affrontata a petto in fuori cavalcando con coraggio la speranza di una guarigione, come gli è accaduto sui campi di calcio dove è passato lasciando tracce visibili prima da formidabile specialista di punizioni (28 gol se ne contano in carriera) e poi da allenatore ispirato nel coltivare talenti riconosciuti al primo allenamento (Gigio Donnarumma al Milan, Alessio Romagnoli alla Samp, Saka Lukic al Toro, Svanberg e Barrow al Bologna).

Temperamento sanguigno da giovanotto, caratteristica confermata da un paio episodi burrascosi in carriera con Vieira e Mutu, Sinisa in panchina è diventato un rigoroso capo-classe grazie forse ai cinque figli (Victorija, Virginia, Miroslav, Dusan e Nicholas) avuti dalla moglie Arianna, la nipotina arrivata nel 2021, e il sesto figlio, Marco, riconosciuto, avuto da una precedente relazione, che ne hanno addolcito gli spigoli e lucidato i contorni tenerissimi di un uomo pieno di slanci generosi. Esponente di spicco di una Stella Rossa colma di geni (Prosinecki, Jugovic, Savicevic, Pancev) ma anche di molte sregolatezze, vinse la Champions nel maggio del 1991 a Bari contro il Marsiglia senza mai riuscire a collezionare un successo con la Nazionale dell'epoca.

Da allenatore non ha mai avuto la strada professionale spianata né imboccato scorciatoie. Debuttò in panchina all'Inter, dove aveva appena concluso la carriera calcistica con un gol datato 2006 all'età di 37 anni, al fianco di Roberto Mancini quale primo assistente. Fu il suo master. Toccò proprio a lui, in quei mesi, «mediare» tra il tecnico e Luis Figo all'epoca del burrascoso rapporto tra i due. Probabilmente capì in quei giorni Sinisa d'essere pronto per cominciare a nuotare da solo nell'oceano del calcio italiano. E così cominciò la vita da giramondo: la famiglia a Roma, saldamente amministrata dalla moglie Arianna, lui in volo di panchina in panchina.

Cominciò a Bologna, saltò a Catania prima di assumere l'incarico di ct della Serbia, quindi il ritorno in serie A e in Italia, a Genova, sponda Samp, poi la puntata al Milan chiusa da un prematuro esonero a pochi turni dalla fine della stagione, la chiamata del Toro di Cairo e infine il ritorno a Bologna, la città che ha assistito, con grande trasporto, al suo calvario e che nel novembre del 2021 gli ha fatto dono della cittadinanza onoraria. Per lui, seguiti dalla moglie Arianna, i tifosi bolognesi salirono in pellegrinaggio al santuario di San Luca.

A Milanello stupì spogliatoio, critica e tifosi con la decisione di far esordire, una domenica pomeriggio, 25 ottobre 2015 la data, in Milan-Sassuolo, un portiere-bambino di 16 anni, Gigio Donnarumma, terzo nella scala gerarchica dietro Abbiati e lo spagnolo Diego Lopez, titolarissimo secondo la vulgata calcistica dell'epoca. Il Milan vinse 2 a 1, Donnarumma subì gol su punizione ma diede inizio a una carriera folgorante che l'avrebbe portato sul tetto d'Europa. Ebbe coraggio anche allora Sinisa, un coraggio dettato dall'intuito che è una dote essenziale per un allenatore. Non fu la prima volta. Perché anche a Genova con la Samp gli capitò di misurare al volo il valore di un altro ventenne, Alessio Romagnoli.

Lo stesso coraggio mostrato durante la malattia, annunciata con qualche cedimento emotivo. Ecco la spiegazione postuma. Il primo colloquio tra il medico e Sinisa, nascosto ai più, era stato il seguente: «Dottore, mi dica la verità, si guarisce o si muore?». La risposta, dicono, fu: «Si muore». Davanti al pubblico invece Sinisa spiegò: «Non sono lacrime di paura, le mie. Ho rispetto per la malattia ma l'affronterò a modo mio, a testa alta e andando avanti, con la tattica che mi piace anche nel calcio». E nel racconto di un retroscena venne fuori il cordone ombelicale con la famiglia: «La cosa più difficile è stata far credere a mia moglie che non potevo allenare perché costretto a letto dalla febbre, io che non ne avevo mai avute in 20 anni precedenti». Anche allora Sinisa Mihajlovic provò a far passare un messaggio di grande fiducia nella medicina e nello staff sanitario del Sant' Orsola che lo avevano preso in cura e adottato per molte settimane.

Quando lo rivedemmo in panchina, una sera a Verona, con quel basco di lana che copriva la testa esaltando la sagoma del viso smagrito, sembrava proprio un soldato tornato in trincea.

L'ultima apparizione in pubblico di Sinisa è datata il 3 dicembre scorso. A Roma, quella sera, c'era la presentazione del libro di Zeman scritto con il vice direttore della Gazzetta dello Sport Andrea Di Caro. Fu una sorta di "carrambata" salutata con grande commozione dal pubblico. La foto simbolo dell'evento, Mihajlovic che baciava sulla fronte Zeman, di una tenerezza unica. Il guerriero Sinisa si è congedato così da noi che l'avremmo scortato volentieri in altre cento battaglie.

Quel bacio glielo restituiamo oggi lasciandolo in consegna a sua moglie Arianna, ai figli e ai tanti che gli hanno voluto bene.

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