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Dribblare alla Beccalossi: il fantasista pigro che fece vibrare l'Inter

Indolente eppure tecnicamente superbo. Riluttante allo sforzo fisico, ma comunque irrinunciabile. Evaristo Beccalossi, un dieci che poteva irradiare o deprimere senza preavviso

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Gianni Brera l'aveva ribattezzato Dribblossi. Perché lui l'uomo provava a saltarlo sempre e, se poteva, ci ripassava anche per soggiogarlo con quella tecnica straripante. Poi però d'improvviso si spegneva. Iniziava a ciondolare per il campo, finendo avviluppato da una catalessi calcistica senza ritorno. Così un giorno potevi giocare in dodici - come avrebbero rilevato i suoi compagni - o magari in dieci. Non lo sapevi mai. Il fantasista non spedisce preavvisi. Il fantasista crea e disfa regolandosi con l'umore. Evaristo Giuseppe Beccalossi era un demiurgo e un distruttore in entrambe le più profonde delle accezioni.

Se ne accorsero nitidamente all'Inter, dove arrivò nel 1978, dopo aver pervasivamente luccicato nella sua Brescia. Talento limpido certo, ma pure parzialmente indotto da una dedizione che aveva sfoggiato in verità soltanto da bambino. Era destro naturale, ma c'era una questione. Il poster appeso in cameretta era quello di Omar Sivori, il ricamatore per eccellenza. L'ammirazione era tale che il piede andava corretto. E allora i pomeriggi diventavano interminabili sfide con il muretto della sala parrocchiale. Calciare e addomesticare. Sempre più forte. Fino a quando la sfera non sarebbe diventata una propaggine del mancino.

Repertorio fintistico già sterminato in fase adolescenziale. Cadenze molleggiate, ma palla sempre in ghiaccio. Difensori strapazzati. Prima il vivaio della squadra della sua città, poi la Serie B. Quindi l'occasione che bussa una volta soltanto. Le luci abbaglianti del Meazza. Settantamila spettatori che d'un tratto intonano il tuo nome. Perché Beccalossi era in fondo uno svagato seduttore. Nelle stanze damascate della sua mente conteneva pensieri calcisitici fervidi e spiazzanti. Solo che anche in nerazzurro, dove aveva conquistato la maglia numero dieci, seguitava a sciabordare e ritrarsi. I tifosi lo idolatravano, ma certe volte i suoi pisolini in mezzo al campo lasciavano atterriti. Era un generatore incantato di assist - che preferiva solennemente alle reti - ma anche un fabbricatore di improperi. Specie quelli dei compagni e degli allenatori.

Evaristo
Evaristo sbaglia il secondo rigore contro lo Slovan

Di lui si diceva che mangiasse male, dormisse poco e bevesse troppi caffè. Un miscuglio che rischiava di distillare il suo estro. Ammetterà in seguito che si era incasinato perché forse tutto era successo troppo in fretta. A ventidue anni ti ritrovi protagonista con la Beneamata e metabolizzare non è una passeggiata. La sera non riusciva a prendere sonno per i pensieri che intasavano le tempie e la mattina non si svegliava mai presto. Appena c'era una pausa si gettava sul cibo, lievitando anche di quattro chilogrammi a weekend. Chiaro che poi in campo, a tratti, rischiava di rimanere sfasato. Lo traevano in salvo le luci e il boato dello stadio. Dava subito di più, anche se non ne aveva, perché si sentiva inorgoglito da quel calore fragoroso.

Poi c'era stata quella frase che avrebbe sussurrato ad Albertosi dopo una doppietta nel derby, ma che non trova conferme dirette: "Mi chiamo Evaristo, scusate se insisto". Gli allenatori che lo costringevano a dormire al centro sportivo per tenerlo sotto controllo. Quella notte di coppa contro lo Slovan Bratislava che sapeva di due rigori falliti nel giro di una manciata di minuti e che, in seguito, sarebbe diventata materiale buono per una sceneggiatura teatrale.

Nel calcio muscolare e intenso di oggi probabilmente se lo ruminerebbero. Ma Evaristo Beccalossi è stato - e resta - semplicemente un figlio del suo tempo. Il dribblomane per eccellenza. Quello che sapeva tracciare strade tra le mangrovie. Un opificio di indolente talento che ha generato quello che nessun super atleta odierno saprebbe riprodurre: i sogni della gente.

Decisamente la sua giocata migliore.

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