Calcio

L’Italia di Spalletti dove può arrivare?

La Nazionale ha davanti a sé un biennio decisivo: gli azzurri devono difendere, con onore, il titolo in Germania questa estate e tornare ai Mondiali fra due anni dopo otto anni di assenza

L’Italia di Spalletti dove può arrivare?

Essere squadra. È questo il mantra che Luciano Spalletti sta ripetendo dallo scorso 18 agosto 2023, data in cui è stato ufficializzato come commissario tecnico della Nazionale italiana. Il primo obiettivo era quello minimo della qualificazione agli Europei che si disputeranno da metà giugno a metà luglio in Germania, dove gli azzurri devono difendere il titolo di campioni in carica. Il tecnico di Certaldo, non senza difficoltà, ha staccato il pass lo scorso 20 novembre quando ha pareggiato 0-0 contro l’Ucraina sul neutro di Leverkusen. Su quella Nazionale, dopo le dimissioni di Mancini, era caduta più di qualche ombra perché lo spettro dello spareggio contro la Macedonia, valido per i Mondiali in Qatar, era tornato ad aleggiare su Coverciano.

È capitato spesso, nel calcio come nella politica, che venisse fuori una delle qualità maggiormente avvezze agli italiani, ossia la procrastinazione. Federico Caffè, noto economista e maestro di Mario Draghi, polemizzando con il terzo governo Andreotti sulle politiche del lavoro ebbe a dire: “Il Paese ha reso naturale la procrastinazione, istituzionalizzando la decisione all'ultimo minuto utile. Nel Paese c’è una sorta di piacere nel dover arrivare a prendere decisioni in stato di emergenza. Come se solo nell'emergenza si possa giungere al superamento reale dei problemi”. Le similitudini fra la fine degli anni 70 a livello politico e l’Italia calcistica degli ultimi anni è calzante, come se fosse necessaria una zona Cesarini perenne per riuscire ad essere davvero capaci di dimostrare di essere nazione.

Spalletti, però, ha immediatamente capito che dopo aver riportato la nave in porto, occorre trasformare lo straordinario in ordinario. Non a caso, il commissario tecnico, in una lunga intervista dello scorso febbraio ebbe a dire: “Io ho bisogno di far venire fuori una Nazionale forte, non mi accontento di nulla. Voglio vincere l’Europeo e poi voglio vincere il Mondiale. Poi possiamo uscire anche subito, ma i discorsi che faccio alla squadra sono quelli che si aspettano tutti gli italiani: noi si va in Germania per vincere, non per partecipare. Lo richiede la nostra storia. Per riuscirci ho bisogno che questi calciatori diventino meglio di quello che sono. Non ho il tempo di esercitarli: serve qualcosa che gli entri dentro e gli accenda un fuoco, gli faccia sgranare gli occhi, gli dia la convinzione di potercela fare”.

Ed è qui che ritorna attuale una frase di Indro Montanelli, che ne “La Storia d’Italia” disse: “Io mi ricordo una definizione dell'Italia che mi dette in tempi lontanissimi un mio maestro e anche benefattore, che fu un grande giornalista, Ugo Ojetti, il quale mi disse: «Ma tu non hai ancora capito che l'Italia è un Paese di contemporanei, senza antenati né posteri perché senza memoria». Io avevo 25-26 anni e la presi come una boutade, per una battuta, un paradosso. Mi sono accorto che aveva assolutamente ragione. Questo è un Paese che [«È un Paese che non ama la Storia»] ha una storia straordinaria, ma non la studia, non la sa”. Il nostro ct ha capito perfettamente che per far diventare ordinario lo straordinario occorre, anzitutto, conoscere la nostra storia, i nostri valori: “Maglia, valori, orgoglio, responsabilità non sono parole che uso a caso. Viviamo in un mondo che poco incentiva il duro lavoro, il sudarsi le cose: i ragazzi di oggi preferiscono mettere una foto su Instagram con il capello fatto piuttosto che abbassare la testa e pedalare. Questi non sono i valori che la mia Italia deve trasmettere. Si viene in Nazionale con gli occhi che ridono e con il cuore che batte e ci si sta come un branco di lupi che vanno in fila indiana per spingere il compagno davanti e non lasciare nessuno indietro. Gli italiani chiedono una Nazionale cazzuta e responsabile, solida e spavalda. Si viene in Nazionale per vincere l’Europeo, non per vincere a Call of Duty”.

Luciano Spalletti

La strada che Spalletti ha tracciato dopo la qualificazione agli Europei è stata chiara a tutti e la dimostrazione l’abbiamo avuta durante le due amichevoli contro Venezuela ed Ecuador nella tournée americana. Non solo gli esperimenti tattici ma, soprattutto, la cattiveria mostrata quando occorreva esserlo più degli avversari. Vincere meritatamente – e soffrendo – è ciò che ha contraddistinto la nazionale durante queste due partite. E, tutto questo, è stato possibile grazie ad un gruppo che ha dimostrato attaccamento e sudore. Lo stesso commissario tecnico ha avuto modo di dire dopo la partita con l’Ecuador che chi è duttile avrà più chance di essere convocato all’Europeo ma è apparso altresì evidente che servono leader pronti a guidare nei momenti di difficoltà. Se, ad esempio, contro il Venezuela abbiamo trovato il centravanti in Retegui, contro l’Ecuador abbiamo visto in Barella – con la fascia di capitano – la figura di leader e collante che serviva a questa squadra.

È vero, “ventitre uomini sono pochi per l’Europeo” ma le scelte non saranno lasciate al caso. Sarà un connubio fra il momento dei singoli e le esigenze tecnico-tattiche a dare le risposte che Spalletti sta cercando. Perché da questo Europeo parte un percorso più importante del torneo stesso, ossia quello di far ritornare in pianta stabile l’Italia fra le nazionali big. E, per farlo, occorre avere uomini che assomiglino a gladiatori; uomini propositivi, affidabili e con entusiasmo. Perché nella gioia dell’Europeo vinto a Wembley ai rigori contro l’Inghilterra non occorre dimenticare il doppio fallimento delle qualificazioni a Russia 2018 e Qatar 2022. Fallimenti che pesano doppio se si pensa alle quattro stelle cucite sul petto della casacca azzurra, oltre alle due finali perse a Messico70 e Usa94 e senza dimenticare la cavalcata di Italia 90.

Più che sollevare un trofeo, dunque, l’orma che Spalletti dovrà lasciare in questi tre anni è quella di tornare ad essere squadra, perché è così che si torna ad essere grandi, perché è così che lo straordinario torna ad essere ordinario. In queste otto gare con Spalletti in panchina abbiamo avuto un graduale passaggio dalla procrastinazione alla normalità che deve trovare conferma nel prossimo biennio. Un percorso, quello intrapreso dal tecnico di Certaldo, che fa venire in mente le parole che Theodore Roosevelt pronunciò in un discorso alla Sorbonna nel 1910 e che in azzurro conoscono benissimo grazie a Luca Vialli che pronunciò proprio questa frase prima della storica finale vinta ai rigori contro l'Inghilterra l'11 luglio 2021: “Non è il critico che conta, né l’individuo che indica come l’uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un’azione. L’onore spetta all’uomo che realmente sta nell’arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c’è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l’obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque, il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta”.

È questa la strada per tornare grandi.

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