G8 Summit

In camicia fra le macerie I Grandi scesi sulla terra

I capi di Stato stringono mani a sfollati e tecnici. Il presidente Usa si arrotola le maniche e fa i complimenti ai vigili del fuoco

In camicia fra le macerie 
I Grandi scesi sulla terra

L’Aquila - Scendono dall’Olimpo dei Grandi uno a uno, ciascuno col suo stile e la sua umanità, la sua carica di simpatia o la sua misurata, teutonica gravità. Ma commossi, anche quelli che all’inizio non sembra; autenticamente coinvolti, e come sorpresi dalle loro stesse emozioni, ora che per una volta si sono fatti uomini tra gli uomini e hanno accettato di farsi trascinare giù in strada dal grande trascinatore italiano che fa gli onori di casa.

Vanno tra la gente vera, tra i tecnici che aggiustano, riparano, saldano e murano; tra i Vigili del fuoco e i tecnici della Protezione civile che hanno le mani piene di calli e di graffi e oggi gli ride le faccia perché hanno nella macchina fotografica, per farla vedere a tutti quando torneranno a casa, una foto ricordo col presidente degli Stati Uniti, toh! I Grandi lasciano per una volta le stanze felpate e irraggiungibili del potere, dei protocolli, degli accordi, delle intese siderali sul clima e sulla crisi e si fanno uomini e donne fra uomini e donne. E chiedono, si fanno raccontare, misurano con lo sguardo lo spavento di quella notte di aprile, e l’angoscia, la disperazione, la rabbia e la paura dei giorni che sono seguiti. E il loro sguardo, perfino quello marmorizzato e impenetrabile di Taro Aso, premier giapponese dice: ci siamo, siamo con voi, il dramma che si è abbattuto sulla vostra terra, sulle vostre famiglie, è roba anche nostra.

Il ragazzone americano, quello «un po’ abbronzato» che quando vede Berlusconi se lo spupazza stringendolo fra le sue braccia da playmaker è in maniche di camicia. E le maniche sono arrotolate fin sotto il gomito, come in certi film western con John Wayne quando c’era il carro della carovana finito nel fosso e toccava dare una mano tutti insieme per tirarlo fuori. O come se da un momento all’altro dovesse davvero chiedere una pala, un piccone, facendosi dire da Guido Bertolaso, il capo della Protezione civile, qual è il suo posto e che cosa c’è da fare.

In piazza del Duomo parte un applausino di benvenuto. Se vogliamo, anche un po’ di circostanza; ma è un modo per vincere l’imbarazzo di trovarsi di fronte, a un metro, a uno dei Grandi della Terra, anzi al Grande per antonomasia. Un battimani misurato, un po’ in sordina, perché in realtà non c’è mica niente da festeggiare. E però, per educazione, bisogna pur dire grazie d’essere venuti, a lor signori, e soprattutto grazie per quel che le loro eccellenze faranno, quando avranno smesso di fare passerella e di restare per cinque minuti immobili, come baccalà, mano nella mano con Berlusconi per certe photo opportunity che durano una vita.

Grazie a Barack Obama e al premier giapponese Taro Aso, uno che di terremoti se ne intende. Grazie alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che ha sempre la faccia di un cane pastore che si è perso nella nebbia e al presidente russo Dmitri Medvedev, sempre fresco di coiffeur e sempre con la giacca di suo fratello più piccolo. E grazie a Bruno Vespa, l’unico fra i 3.500 giornalisti accreditati all’Aquila ammesso fra gli happy few, a spasso fra Berlusconi e Obama, sempre in favore di telecamera in piazza del Duomo; lì a dir la sua a entrambi, a petto in fuori come uno di quei pesci pilota che scortano balene da trenta tonnellate. Salutano e battono le mani i Vigili del fuoco che Obama saluta uno a uno, quando se li vede parati di fronte in linea di fila, complimenti per il «grande lavoro» dice loro il presidente Usa, «i nostri pompieri vi apprezzano e vi ammirano». E poi agli aquilani: «Seguo la vostra tragedia fin dal primo momento. Vi sono vicino e vi assicuro che gli Stati Uniti sono pronti ad aiutare l’Italia».

Silvio Berlusconi racconta, spiega, suggerisce, indica con la mano, signoreggia la scena, sempre inappuntabile. Un triplo, quadruplo, forse anche quintuplo anello di sicurezza circonda il cuore dell’Aquila. Ed è così ferrigno, così impenetrabile da gettare un’ombra di ridicolo e di grottesco su quello che si diceva insuperabile per eccellenza, quello di Saddam Hussein buonanima. Lungo i tratturi, sulle carrarecce che si affacciano alle provinciali, dietro cespugli, folti di querce e muretti diroccati, vedi più pantere e gazzelle che pecore. Tiratori scelti perfino sui campanili. Dunque nessun black bloc, nessun no global che sia riuscito ad avvicinarsi alla scena anche solo per fare un marameo.

Ieri, con Obama in piazza, e Angela Merkel a Onna, il paesino spazzato via per tre quarti dal terremoto del 6 aprile, la politica si è fatta voler bene. Come se si fosse spezzato un incantesimo tra «loro» e la gente.

Chissà la delusione di chi si era preparato alla battaglia da mesi, e intorno al G8 dell’Aquila contava di montare lo stesso feroce casino di Genova. Chissà la delusione di chi si era portato una bella bandiera a stelle e strisce da bruciare in piazza, in odio all’«amerikano». Le poderose, immense Chevrolet «Suburban» dei servizi segreti Usa, irte di antenne, nere e lucide come le scarpe del presidente, stavolta ospitano uno di noi, un cugino venuto dall’America a condividere una brutta storia che ci è capitata. Uno che quando scende dall'auto alza la testa e gli viene anche un po’ da ridere, quando sulla collina di Roio, che domina la A24, vede quella scritta, «Yes, we camp», sì, siamo ancora accampati, che fa il verso al suo «Yes we can». Uno un po’ triste quando Berlusconi gli fa vedere i cocci della Chiesa della Salute, e allegro quando si abbassa fino al metro e cinquanta di Stefania Pezzopane, presidente della Provincia, che nella foto-ricordo gli arriverebbe altrimenti alla pancia.

Uno che (anche gli altri, per carità, ma lui di più) ti fa sembrare simpatico, all’improvviso, anche un G8.

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