Cultura e Spettacoli

Cari critici, l’avete letto bene Tom Wolfe?

Who’s afraid of Tom Wolfe? (Aurum Press, pagg. 324, sterline 14,99) si intitola il libro appena uscito di Marc Weingarten, giornalista per il New York Times, il Los Angeles Times, il Village Voice e Rolling Stone. Già, chi ha paura di Tom Wolfe? Scritto con l’intento di storicizzare un’epoca e spiegare «come il New Journalism riscrisse il mondo», il saggio in questione racconta il decennio fra i Sessanta e i Settanta in cui la palma della scrittura passò dal romanziere al giornalista, dalla invenzione alla cronaca. Libri come A sangue freddo di Capote, Armate della notte di Mailer, Paura e terrore a Las Vegas di Thompson, L’Acid Test al Rinfresko Elettriko, appunto di Wolfe, Dispacci di Michael Herr aprirono in pratica la strada a un nuovo genere, andarono in cima alle classifiche, fecero man bassa di riconoscimenti, continuarono nel tempo a essere stampati.
Con lo scrupolo dello storico e la penna del buon cronista Marc Weingarten ripercorre quel periodo e i suoi protagonisti, così diversi fra loro, per stili, gusti, opinioni politiche: un gruppo eterogeneo, litigioso al proprio interno, spesso inconsapevole quanto a mezzi e fini. E che pure mise la pietra tombale sul fatto superato dalle opinioni nel campo giornalistico, sul romanzo come genere codificato nella letteratura.
Ciò che tuttavia resta fuori è la domanda che dà il titolo al libro e che nelle pagine dello stesso non viene del resto mai affrontata, più un pretesto che un interrogativo. Forse andrebbe formulata in modo diverso, se non altro in Italia: per esempio, «Chi ha veramente letto Tom Wolfe?».
Lo Chic Radicale era un reportage giornalistico di trent’anni fa. Il falò delle vanità, per certi versi la sua continuazione in forma di romanzo, ne ha ormai quasi venti. Ogniqualvolta la stampa nostrana deve parlare di questo autore è al radicalismo snob che fa riferimento, ovvero alla critica dell’America liberal da un lato, alla sua omologa versione nazionale dall’altro. Solo che da allora è cambiato il mondo, la categoria in questione non è più né egemone né così atrocemente ridicola (quand’è che si potrà mai riavere l’irripetibile spettacolo di una ideologia in cui flirtavano d’amore e d’accordo le Pantere nere, Wall Street, il marxismo e la militanza gay, ovvero le bierre, le terrazze romane, gli editori miliardari e gli espropri proletari...) e, insomma, da giornalista di razza e da romanziere testimone del proprio tempo Wolfe del cambiamento ha preso atto e sul cambiamento ha scritto altri due romanzi. Peccato che i critici italiani non se ne siano ancora accorti.
Così, presentare Io sono Charlotte Simmons (Mondadori, pagg. 778, euro 22) come il solito ritratto feroce dell’America progressista e democratica fatto da uno scrittore reazionario e dandy significa fare un torto all’autore e un altro al lettore. Perché invece questo romanzo è l’esatto contrario e cioè la critica di un’America repubblicana e imperiale fatta da uno scrittore libero e impegnato. Quanto al sempre citato dandismo di Wolfe, sancito da quel suo vestirsi unicamente di bianco, pur con tutta l’ammirazione per la sua arte sarà consentito, a chi in quanto italiano e in quanto europeo di dandies ha una plurisecolare frequentazione, stendere un velo amichevole sulla faccenda. Un americano elegante è un ossimoro.
Io sono Charlotte Simmons racconta l’età di Bush meglio di un libro di storia o di uno studio sociologico. Lo fa mettendo in scena una studentessa di provincia e di belle speranze che entra grazie alla sua intelligenza in uno dei college più esclusivi del Paese e lì si accorge che per far parte dell’élite non è sufficiente il talento: ci vogliono il denaro, le conoscenze giuste, la condivisione dei rituali che accompagnano la selezione della futura classe dirigente, in una parola l’accettazione del modello americano vincente come modello di comportamento e di reciproco riconoscimento. Questo modello vede al primo posto il culto della sanità fisica, e quindi la vita come match, scontro, gara in cui però le componenti classiche della competizione, ovvero il fair play, l’accettazione delle regole, sono stravolte fin dall’inizio: l’importante è vincere, non importa come. Ed è il successo a sancire la liceità dei comportamenti.
Il culto del fisico va di pari passo con lo spirito di emulazione e di clan. Al college la selezione è data dal combinato disposto degli eroi dello sport, da un lato, dei rampolli della buona società, o presunti tali, dall’altro. Questi ultimi mettono in campo non la prestazione fisica, privilegio degli altri, ma un pedigree frutto di uno status sociale pregresso, oppure di uno status sociale millantato, in entrambi i casi, comunque, tenacemente difeso e/o agognato. Ciò significa che nella società americana descritta da Wolfe il mito dell’outsider, del self made man, di chi insomma si costruisce da solo, è un mito fuori moda. Nessuno degli allievi del college che si vede come la futura lobby di potere accetta per sé un simile ruolo: al contrario, proprio quelli che provengono da esperienze familiari non felici (padri falliti negli affari, status sociale decaduto) sono i più tenaci nel negare un handicap di partenza e i più fertili nell’inventarsi un passato che li nobiliti. E va da sé che il loro orizzonte è squisitamente economico, prevede una professione nella finanza o nel business, sogna stipendi e benefit.
Naturalmente, ci sono anche quegli allievi che, per quanti sforzi inventivi possano fare, rimangono egualmente degli outsider. La loro estrazione familiare è troppo modesta, la loro mitomania troppo insicura. Per emergere essi hanno a disposizione solo la loro eccezionalità intellettuale, che però li mette di fronte a un bivio. Da un lato c’è la strada che li porta a essere, in qualche modo, i «vassalli» di chi si considera la classe dirigente in pectore. Proprio perché si debbono mantenere all’università e la borsa di studio non è sufficiente, proprio perché non possono fare mistero di questa condizione d’inferiorità, proprio perché non possono permettersi di sgarrare, finiscono con l’essere tenuti ai margini, sfruttati, usati, derisi. Non è un caso che si muovano tutti nell’ambito degli studi umanistici, non è un caso che eventualmente il successo arriderà loro nel campo delle professioni liberali, giornalismo, scuola, università, avvocatura; non è un caso che passati, grazie al successo, a una condizione prima di «liberti», poi di signori avranno nei confronti dei loro antichi «padroni» un atteggiamento o di sudditanza o di odio. Ma, sia nell’uno che nell’altro, con la consapevolezza di non essere comunque loro l’élite.
L’altra strada è quella che imbocca la protagonista del romanzo. Charlotte Simmons ha tutto dell’outsider. Viene dall’America profonda che nessuno conosce, è di condizioni familiari modeste e si vergogna un po’ della rozzezza del padre. Però è intelligentissima, sa di esserlo e pensa che la sua intelligenza le aprirà tutte le porte. Charlotte Simmons, insomma, non è un vassallo né un liberto, e quindi non sa stare al suo posto, anzi pensa che l’aristocrazia del college la accoglierà con tutti gli onori dovuti al rango che alla sua intelligenza, appunto, compete.
Solo che in questa aristocrazia l’intelligenza non è un valore. I valori sono altri: è un valore essere cool, ovvero alla moda in quanto sopra a ogni moda. È un valore disprezzare il college, cioè limitarsi a sfruttarne il nome. È un valore il fastidio per ogni interesse che non sia sportivo, epidermico, perennemente scenografico. È un valore il sentirsi superiori per una sorta di diritto divino, un’impronta carismatica che non ha nulla a che vedere con le doti intellettuali. Infine, poiché quell’aristocrazia è tipicamente maschile, l’elemento femminile ne può fare parte solo se ne accetta i parametri di base: nessuna inibizione, totale libertà nei rapporti, parità sessuale nel senso che la donna finge di comportarsi come un uomo.
Vergine e intelligente Charlotte verrà stritolata dalla aristocrazia di cui credeva di dover fare parte. Si ritroverà praticamente violentata e poi abbandonata proprio da chi aveva scelto come campione perfetto della «nuova classe». Non più vergine, metterà intelligentemente da parte la propria intelligenza per fare coppia con un campione dell’altra aristocrazia, parallela e altrettanto se non più importante, quella sportiva, e riuscire così a fare egualmente parte della créme. Lo sarà per interposta persona, ovvero come la ragazza dell’idolo bianco del basket, e non in quanto «Io sono Charlotte Simmons». Ma che lui abbia scelto lei è comunque la prova che Charlotte Simmons esiste e ha vinto la sua battaglia.
Nel romanzo di Wolfe tutti gli elementi che un tempo caratterizzavano la società americana esistono ancora, ma appaiono come svuotati. C’è sì il femminismo e il «politicamente corretto», i diritti delle minoranze e l’accusa di razzismo e di molestie sessuali che pende sempre come una spada di Damocle, ma non rappresentano più il Paese, ne sono i residui passivi, non i tratti costitutivi. Wolfe racconta una specie di ritorno al potere della razza bianca, maschile, misogina, votata al successo per il successo, sufficientemente avvertita per non inciampare in codici di comportamento consolidati, ma forte del disprezzo di chi comunque li ritiene retaggio di un’epoca superata e non tali da poter impedire la propria affermazione. Ciò che dal romanzo vien fuori è la messa in minoranza proprio di quell’America «radicalchic» di cui trent’anni fa Wolfe aveva stigmatizzato l’arroganza, ma la nuova America che ne ha preso il posto gli fa per certi versi ancora più orrore, perché è un Paese dominato dal culto del successo, dalla egemonia dei corpi, dalla fiducia cieca nel denaro, dal rifiuto dei più deboli, un Paese-giungla dove solo il predatore ha diritto di sopravvivenza, almeno fino a che non trova un animale più predone di lui.
Il libro racconta, insomma, la sconfitta dell’intelligenza e quindi della cultura a petto di una società che sembra non sapere più cosa farsene.

Lì dove un eccesso di ideologia, di stereotipi, di conformismo anticonformistico l’aveva minata, l’inseguimento dell’affermazione, l’arroganza, la logica del business, il culto esemplare della forza le hanno dato il colpo di grazia. Il ciclo si chiude: dal radicalismo chic al darwinismo choc.

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