Il caso Se Stalin diventa un «dittatore sviluppista»

Josif Stalin, inteso come icona storica, ha vissuto due vite. C’è uno Stalin precedente l’anno 1956. È lo Stalin che nel ’44 viene nominato uomo dell’anno dalla rivista Time, lo Stalin di cui Winston Churchill diceva: «Mi piace quest’uomo». E questo senza citare i melensi panegirici sul «Piccolo padre» prodotti in ambito sovietico. C’è poi lo Stalin che inizia a delinearsi dopo il rapporto Kruscev del 25 febbraio ’56. Un despota sanguinario, che senza alcuna preveggenza lasciò l’Urss in balia delle armate del Terzo Reich, un individuo vanesio e ignorante caratterizzato solo da astuzia e ferocia. Com’è possibile che esistano due quadri così diversi? Durante la seconda guerra mondiale l’Occidente aveva un bisogno assoluto dell’aiuto sovietico ed era giocoforza parlar bene dei propri alleati. Quanto poi alle fonti interne all’Urss, quando non erano osannanti finivano in malo modo la loro carriera informativa. Dal ’56 in poi, con la Guerra fredda imperante e Kruscev intento a sbarazzarsi delle sacche di resistenza politica legate al vecchio leader, divenne più facile per tutti, compresi i comunisti occidentali sparare a palle incatenate sul tiranno morto. E va da sé che nel caso sovietico l’attacco a «Baffone» si trasformasse in strumento politico. Qualsiasi cosa non funzionasse in Urss, era attribuibile a lui. Un modo per accusare il singolo assolvendo il sistema.
Quanto detto sin qui è il presupposto da cui vorrebbe prendere le mosse il libro Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, di Domenico Losurdo (Carocci, pagg. 382, euro 29,50). È un presupposto importante per ogni analisi storiografica. Si deve prendere atto che i miti, buoni o cattivi, ottenebrano i fatti. Il libro, però, sembra intraprendere quasi subito un’altra strada. Perché un conto è prendere atto del fatto che senza il dittatore l’Occidente, forse, non sarebbe sopravvissuto al nazismo, oppure mettere in luce che i limiti bellici dell’Urss non erano tutti attribuibili a Stalin. Un altro contestare la similitudine del regime concentrazionario stalinista con i lager nazisti. Oppure distinguere fra il totalitarismo hitleriano e quella che viene più amenamente definita una «dittatura sviluppista». Un conto è tenere in considerazione gli effetti di Stalin sulla politica industriale russa, e un altro descrivere i suoi gulag così: «Come nella società nel suo complesso, anche tra i detenuti si cerca di stimolare l’emulazione socialista: coloro che vi si distinguono possono godere di un supplemento alimentare e di altri privilegi». Oppure: «Per strano che possa essere, “il gulag a poco a poco portava la civiltà, se così si può chiamare, in remote zone disabitate”. Fra i dirigenti e gli amministratori, non mancano le persone che danno prova di umanità e intelligenza... ». Né la lettura della storia russa, a partire dal 1917, come una continua guerra civile dovrebbe trasformarsi in una decriminalizzazione di Stalin.
Insomma, se qualcuno avesse prodotto un libro del genere parlando di Hitler o di Mussolini si sarebbe tuonato contro il revisionismo e invocato una «levata di scudi democratica».

In questo caso non sembra scandalizzarsi nessuno, men che meno per il fatto che nella postfazione di Luciano Canfora si legge che di fronte a Stalin «si scatta in piedi invece di soppesare il pro e il contro» oppure che «non sarà un caso che il nazismo abbia portato il mondo alla guerra e alla catastrofe e l’Urss no». Così alla fine viene un sospetto: non sarà che usando la scusa dell’equilibrio storiografico qualcuno cerca di tornare ai panegirici staliniani degli anni ’40?

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