Cultura e Spettacoli

In cerca di un giardino dove provare ad essere più felici



Domizia Carafòli
Per essere felici ci vuole coraggio. Coraggio di rompere le abitudini, di spezzare i concetti sedimentati. Di vincere le pigrizie intellettuali, di smascherare i propri alibi mentali. Lo ha fatto Pia Pera, scrittrice di successo, brillante intellettuale figlia di un luminare del diritto del lavoro, specialista di letteratura russa: di quelle che uno si immagina in corsa perenne tra una conferenza e un aeroporto. In una vita precedente, Pia Pera è stata tutto questo. Ma quando io l’ho veramente ben conosciuta, aveva già compiuto la scelta. Ed è per questo che ci incontriamo nel suo podere della Lucchesia. Il giorno di marzo è arcigno ma il cielo uniformemente grigio sembra fatto apposta per sottolineare la fioritura bianco-rosa dei mandorli. Da questo podere, dove vive e che coltiva con impegno quotidiano, Pia Pera ricava la felicità o almeno qualcosa che le somiglia molto.
Due anni dopo il grande successo del primo libro (non il primo in assoluto, il primo della nuova vita) L’orto di un perdigiorno (Ponte alle Grazie) in cui raccontava il suo ritorno al podere in abbandono e gli sforzi, la fatica, la gioia di farlo rinascere, Pia Pera ricompare in libreria con Il giardino che vorrei (Electa, pagg. 223, euro 60): non più un diario ma una lunga, gentile confessione sui sogni, i pentimenti, i desideri segreti, le fantasie di un’amante del giardino. Anzi, no: di una persona quotidianamente capace di meravigliarsi di fronte al germinare di un seme. Anche il seme di un’erbaccia? «Anche il seme di un’erbaccia - risponde l’autrice -. Ma perché poi chiamarla “erbaccia”? Le erbe spontanee le considero ospiti della mia terra. O forse, sono proprio io, l’ospite fra di loro».
Un atteggiamento di umiltà che fa sì che i giardini - in parte sognati in parte descritti - da Pia Pera siano sempre un armonioso connubio fra la naturale espressione arborea e floreale di un luogo e l’intervento umano. Secondo i luoghi e la natura del terreno e del clima, la scrittrice distingue e racconta giardini dove abbonda l’acqua, giardini battuti dal sole, giardini ombrosi. Giardini di collina e di pianura, giardini al mare e giardini di montagna. Ma anche quelle nascoste sorprese che sono i giardini segreti di città: orti claustrali, oasi di silenzio chiuse tra le mura.
Il pacato e un po’ sognante discorso di Pia Pera è sottolineato dalle tante fotografie di Cristina Archinto che non interrompono il filo dell’affabulazione ma introducono nel racconto lo splendore dei petali, il luccichio dell’acqua in uno stagno, il gioco del sole tra le foglie. Immagini belle e semplici come il testo che illustrano, a formare una poetica del giardino che diventa una sommessa ma forte religione della natura.
I giardini descritti e fotografati da Pia e Cristina sono giardini privati, molti appartengono ad amici dell’autrice che li coltivano con grande dedizione. Una sorta di placida consorteria che si incontra anche nella rete (www.giardiniaperti.it) per mettere a disposizione di tutti le proprie conoscenze con la stessa generosità con cui hanno aperto i cancelli all’obiettivo di Cristina Archinto. E poiché, come tutti coloro che seminano, innaffiano, sarchiano e potano, Pia Pera è anche una persona molto concreta, alle pagine letterarie di pura poetica seguono altre di consigli utili a chi voglia creare il proprio spazio fiorito: in collina o al mare, in pianura o in città. Quali piante scegliere, come disporle, come farle crescere bene, sane e felici.
Il giardino che vorrei viene presentato a Milano mercoledì 29 marzo alle 18 alla libreria Hoepli, in un incontro nel corso del quale l’autrice illustrerà anche un’altra sua opera in fieri: il portale www.ortidipace.org. «È concepito in uno spirito di servizio - spiega - per chi avverta il desiderio di provare con semi e piantine.

Ma ha anche l’ambizione di promuovere la creazione di orti: orti terapeutici per chi è malato o ha semplicemente bisogno di pace interiore, orti didattici nelle scuole per insegnare ai bambini com’è bello sporcarsi le mani nella terra».

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