Il Premio Nobel per la letteratura allo svedese Tomas Tranströmer è una di quelle assegnazioni che ricorderemo come una piacevole sorpresa. Non che la sua candidatura fosse una novità: infatti, dopo la prima nomina nel 1973 era stato più volte riproposto, al punto però da diventare una specie di supercandidato, ma di bandiera. Il problema per lui, riconosciuto in patria e all’estero come il massimo poeta scandinavo vivente, era quella clausola del regolamento che prescrive che il Nobel venga preferibilmente assegnato a scrittori la cui opera sia volta ad accrescere il progresso sociale. Motivo per cui anche quest’anno le quotazioni di Tranströmer, in cui l’impegno politico esplicito manca, erano più basse di quelle di Adonis, poeta libanese che sembrava il perfetto sigillo poetico alla recente «primavera araba». Di qui la sorpresa per la scelta dell’Accademia svedese, forse preoccupata, dopo il Nobel postumo per la chimica, che l’aria di ospizio che si respira nel Premio diventasse di obitorio per i candidati di casa.
Nato a Stoccolma nel 1931, Tranströmer esordì nel 1954 con un libretto, 17 poesie, che lo segnalò subito come un talento straordinario. La dozzina di raccolte successive hanno confermato quell’impressione iniziale. Tranströmer è un talento lirico in senso stretto, il che significa che la sua poesia non si è evoluta nel tempo, ma ha continuato ad approfondire temi e forme presenti fin dall’inizio. Il suo punto di partenza fu la lezione dei fondatori del Modernismo scandinavo (Edith Södergran, Pär Lagerkvist, Karin Boye), i quali avevano praticato una poesia di classica asciuttezza, evitando gli eccessi dello sperimentalismo delle Avanguardie europee. Queste giunsero a nord negli anni Quaranta, senza però produrre esiti concreti di rilievo.
La prima cosa che colpisce chiunque legga una poesia di Tranströmer sono le immagini, come del resto sottolinea anche la motivazione del Premio, a lui assegnato «perché attraverso immagini dense e limpide ci offre un nuovo accesso al reale». Dense e limpide: sembrerebbe una contraddizione in termini, e invece è una definizione perfetta dello stile di Tranströmer. Il quale assorbì la lezione di Simbolismo, Espressionismo e Surrealismo, evitandone però l’imprecisione e le ridondanze. Tranströmer non accumula immagini slegate, né le sospende in vaghezze tardo-romantiche: sceglie un’immagine potente e lascia che espanda i suoi significati, aprendo squarci inattesi nella percezione e nel pensiero. La sua è una poesia di occasioni in senso montaliano, di epifanie alla luce delle quali viene riletto il resto del vissuto. Fondamento teorico di queste procedure è un visione della realtà come mistero che si manifesta in speciali momenti della vita comune, osservata con una venatura sacrale di stampo panteista, estraneo a qualsiasi ortodossia religiosa. È facile capire come l’interesse di Tranströmer si concentri su etica e metafisica.
Lo stile e il linguaggio di Tranströmer sono perfettamente adeguati alla sua visione. La sua opera, limitata nella mole, si caratterizza per concentrazione espressiva, e cala le sue sorprendenti metafore in forme metriche e strofiche anche tradizionali, benché il verso libero prevalga quantitativamente. Malgrado la forte tensione morale e speculativa, il didatticismo è estraneo a questa poesia, portatrice di significati molteplici. Ciò serve a ricordarci come il mondo sia ben più complesso degli schemi ideologici che ognuno di noi tende a sovrapporgli, scambiandoli poi per «la realtà».
Tradotto in oltre 50 lingue e noto agli anglofoni grazie alle versioni di Robert Bly, Tranströmer è presente in Italia presso Crocetti (Antologia della poesia svedese contemporanea, 1996; Poesie dal silenzio, 2008) e Herrenhaus (La lugubre gondola, 2003).
*curatore con Helena Sanson dell’«Antologia della poesia svedese contemporanea»
(Crocetti, 1996)