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Lo chef che sussurra all'orto: "La mia cucina durevole che rispetta stagioni e clienti"

Il tristellato di Piazza Duomo si svela pulendo cavoli. "Il mondo vegetale è il più completo ed espressivo"

Lo chef che sussurra all'orto: "La mia cucina durevole che rispetta stagioni e clienti"

Questa è una vera intervista del cavolo. Enrico Crippa, 51 anni, la trascorre prendendo da un grande contenitore una testina di cavolfiore via l'altra e pulendole velocemente ma perfettamente e poi deponendo il risultato in file ordinate per dimensione, come soldati in battaglione all'arme schierati. Del resto Roberta Ceretto, della famiglia di barolisti proprietaria del ristorante Piazza Duomo ad Alba dove mi trovo e dove Crippa cucina da quasi vent'anni e da oltre dieci con tre stelle Michelin sul petto, me lo aveva detto: «Vedi di intervistarlo mentre lavora, solo così si concentra di più e si apre». Aveva ragione, Roberta. Solo che finito il cavolfiore finita l'intervista.

Il fatto è che per parlare con Crippa sono dovuto arrivare nella cucina di Piazza Duomo alle 8 di mattina, orario da chef, forse, non certo da giornalista. La cucina è già in pieno fermento, una silenziosa macchina da guerra in cui ciascuno compie gesti sapienti. Enrico ogni tanto mentre capa cavoli e parla con me guarda i suoi ragazzi per vedere che tutto fili liscio (e tutto fila liscio, accidenti, io che speravo nella scenata da chef tristellato. Ma Crippa, baffi ottocenteschi, sguardo da asceta e un peso stimabile in 55 chili al garrese, deve essere uno che incenerisce con lo sguardo, semmai). Comunque sono le 8 di mattina e in cucina ci sono le stesse facce che c'erano la sera prima a cena, io sono andato via a mezzanotte e loro erano lì a rimettere in ordine. Per dire.

Enrico, che ci fa un brianzolo nelle Langhe?

«Sono arrivato qui nel 2003. Venivo dal Giappone. Prima ero stato da Gualtiero Marchesi. C'erano tante cose da imparare, da capire».

Che territorio è?

«Qui non puoi arrivare a gamba tesa, non funziona così. Qui la pensano come me: pensi, guardi, capisci, fai e poi semmai dici che hai fatto. Il mondo là fuori va completamente al contrario».

E la nebbia?

«La Langa in questa stagione: nebbia sotto, collina scoperta, nebbia dall'altra parte, uno di qua uno di là, io faccio il mio, tu fai il tuo, sei bravo tu, sono bravo anche io».

Ora tutti gli chef hanno il loro orto, ma tu ce l'hai da vent'anni ed è enorme. Questo ti ha reso il re della cucina vegetale...

«Il mondo vegetale è più ampio di quello della carne o del pesce. Tu di un carciofo puoi lavorare il seme, il midollo, il gambo, il fiore, c'è un grande margine di ragionamento. Anche se poi ogni verdura ha il suo punto di verdura corretto».

Il cavolfiore che stai pulendo, ad esempio?

«A me il cavolfiore piace fondente, quando è croccante mi dà fastidio, sotto i denti scricchiola. Come pure le zucchine trombetta, la maggior parte delle persone sostengono che sono buone crude perché non hanno semi, ma se le cuoci fondenti e le schiacci con la forchetta con un sacco d'olio ti ricordano l'avocado, talmente burrose, grasse».

E pensare che il vegetale crudo sembra il massimo della salute...

«Ma no, ogni verdura ha un suo punto massimo di espressione, Negli anni Ottanta da Marchesi le verdurine tornite erano dure. A me mica piacevano».

Parliamo di sostenibilità in cucina.

«Parliamone. Un tempo compravi della granella di nocciole e ti arrivava il fornitore con un secchio. Ora ti arriva una scatola con dentro un contenitore di plastica pieno di quelle patatine di polistirolo. E poi ci sono anche le nocciole. E arrivano da tre chilometri più in là».

Che cosa possiamo fare? Che cosa puoi fare?

«Oggi pure la banca è sostenibile, fa ridere. No. Dobbiamo renderci conto che siamo arrivati forse davvero al limite, forse lo abbiamo anche già superato. L'agricoltura è cambiata, un tempo il Barolo si vendemmiava con la neve ai piedi, ora alla seconda settimana di ottobre è già tutto raccolto. Però a me la parola sostenibilità non piace».

E quale parola ti piace?

«I francesi sono bravi con le parole, loro dicono durable, durevole. Se hai un'azienda, una famiglia, non vuoi farla durare nel tempo? Coltivare un campo in biodinamica, in biologico, te lo fa durare, la terra rimane sempre ingrassata nel modo giusto».

È la durabilità la vera responsabilità di uno chef?

«La responsabilità sta nell'insegnare non solo a sfilettare un pesce ma anche che i gambi del carciofo non vanno buttati via ma puoi farne una crema buonissima perché è la parte da cui passa tutta la linfa dal terreno al fiore».

E al cliente che cosa si deve insegnare?

«Che quando vai al ristorante non devi per forza poter scegliere tra dieci piatti di pesce o dieci primi. Si mangia quello che c'è oggi, quello che c'è questa settimana, in questa stagione. E pazienza se poi ti dò due volte nello stesso menu gli asparagi o i piselli. È la stagione. Goditi quello che c'è».

Tu sei noto per l'attenzione al cliente. Si dice che se uno è mancino tu la volta successiva te lo ricordi. Se non mangia un ingrediente ne prendi nota. È vero?

«Si dice sempre che la cucina della mamma è la migliore. Per forza: ti cucina quello che ti piace. Io fondamentalmente cucino quello che vorrei mangiare ed evidentemente c'è nel mondo della gente che la pensa nel cibo come me. Quando ricevi un complimento la prima volta capisci che chi te l'ha fatto ti può seguire, e se ritorna e hai un po' di informazioni puoi selezionare e far partire un rapporto di fiducia e allora ti lasciano fare, non vogliono nemmeno più scegliere. E fai sempre centro».

Si parlava di stagione. E tu in quale stagione della tua vita sei?

«Mi piace la sicurezza di manualità, di pensiero, di ragionamento alla quale sono arrivato adesso. Ho sviluppato in questi anni una filosofia di cucina che mi piace sempre di più. E poi mi rende sereno vedere i collaboratori che invecchiano anche loro, mettono su famiglia, nascono bambini».

Tu non hai figli.

«No, sono sposato ma mia moglie Silvia lavora con i bambini, credo che ne abbia già a sufficienza».

Come il Covid ha cambiato te e il tuo lavoro?

«Ci siamo fermati. E siamo riusciti in questo disastro, noi che certi giorni non abbiamo nemmeno il tempo per mangiare o per pisciare, a fare dei ragionamenti. Abbiamo riguardato tutta la nostra gestione economica, abbiamo imparato a leggere i nostri numeri. E quando il lockdown è finito...».

Che cosa è accaduto?

«Ci siamo resi conto che quando il lavoro c'è lo devi prendere anche sette giorni su sette, come succede qui quando è la stagione del tartufo e c'è il devasto. Ma nel resto dell'anno, da febbraio a settembre, abbiamo scelto di restare aperti solo quattro giorni a settimana. E abbiamo fatto più coperti diventando più sostenibili anche da un punto di vista umano».

I tuoi ragazzi saranno felici di avere tre giorni liberi...

«Sì, anche se più riposi e più spendi. E i miei ragazzi se ne sono accorti. Del resto perché gli immigrati italiani all'estero un tempo cercavano sempre di lavorare negli hotel o nei ristoranti? Perché stavano al caldo e mangiavano due volte al giorno».

Spenderanno di più ma avranno più tempo per loro...

«Vedi, devi tenerti caro chi lavora con te. Così loro hanno tempo per dormire, per divertirsi e per pagare le bollette. E poi se concentri il lavoro è meglio anche per l'approvvigionamento, sai meglio quanta merce ti serve e hai anche meno spreco».

Anche tu hai più tempo.

«Così vedo Silvia tutto il giorno e posso farmi con lei anche un week-end. Negli altri giorni io torno a casa che lei già dorme e la mattina si alza dieci minuti dopo che io parto la mattina».

E cosa mangi nei tuoi tre giorni liberi?

«Di tutto. Se devo accontentarmi di una cosa veloce perché non ho voglia di pensare, non ho tempo o ho il frigo vuoto, mi butto sul riso: bollito, saltato, cotto per riduzione, pilaf. Io con un riso sono contento. Però quando vengono i miei genitori a trovarmi mi portano sempre salame brianzolo, taleggio e ne vado matto, lo regalo anche ai miei ragazzi perché mia madre ha capito che una sola forma non basta...».

E le verdure del tuo orto?

«Certo, mi piacciono anche quelle, cerco sempre di mangiare qualcosa di crudo prima di cominciare un percorso a tavola. Cetrioli, finocchi, crauti. Fa bene a livello gastrointestinale».

Una tua perversione gastronomica?

«Sono un grandissimo fan dei ricci di mare. Sono dentro a ogni mio menu».

Ma alla fine che cos'è l'avanguardia in questo momento in cucina?

«Resto sempre convinto che sia il vegetale».

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