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Cheryl, l'avvocatessa velata che fa discutere l'America

Chi è il procuratore Borman, che difende una delle "menti" dell'11 Settembre e va in aula indossando l'hijab

Cheryl Borman è un avvocato esperto. Laureata alla Loyola University di Chicago, ha 52 anni e la sua passione sono i diritti civili. Prima che l'Illinois nel 2011 abolisse la pena di morte, è stata per tre anni a capo dell'Unità per le cause capitali istituita dall'ufficio dei difensori del suo Stato. Il procuratore Borman, la cui parcella è pagata dal Pentagono, è l'unica donna del team difensivo al processo appena cominciato a Guantanamo contro i cinque presunti registi della strage delle Torri gemelle. Non è musulmana, ma ha stupito tutti presentandosi in aula con una lunga veste tradizionale islamica e con i lunghi capelli rossi coperti da uno hijab scuro.
Cheryl non ha spiegato se sia stata una richiesta del suo assistito, Walid bin Attash, o una sua iniziativa. Ha detto solo che veste in quel modo tutte le volte che incontra bin Attash e ha aggiunto, rivolta al giudice militare: "Chiedo che tutte le donne in aula vestano in modo appropriato, per non costringere gli imputati a commettere peccato guardandole". E ancora: "Quando sei al processo che decide per la tua vita o la tua morte, devi rimanere concentrato". Le donne presenti al processo indossavano uniformi militari oppure tailleur, ma secondo la Borman alcune di loro non erano rispettose della fede degli imputati.
L'avvocatessa con il velo islamico è diventata il simbolo dell'America che processa l'11 Settembre. Rappresentata tanto dai parenti delle 2.976 vittime, che hanno seguito in video e in lacrime l'udienza, quanto dalle molte associazioni per i diritti umani, che denunciano i maltrattamenti in prigione agli uomini considerati le "menti" dell'attentato. Quello che è stato definito "il processo del secolo" e che potrebbe durare anni ha rinchiuso dentro un'aula i valori e le paure degli americani. Le testimonianze ottenute dagli imputati con la tortura sono state invalidate e non potranno essere usate contro di loro.

Basta un dato: uno degli accusati, Sheik Mohammed, dal proprio arrivo a Guantanamo nel 2003 è stato sottoposto ben 183 volte al waterboarding, il metodo di tortura che consiste nell'immergere la testa dell'interrogato nell'acqua fino al limite dell'annegamento.

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