Il film del weekend

"Felicità", il senso della vita è semplice ma non facile

Un’opera prima (di Micaela Ramazzotti) che colpisce per la traboccante sincerità e in cui si racconta come l’essere fragili non escluda la forza di prendere in mano la propria vita

Al cinema “Felicità”, il senso della vita è semplice ma non facile

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Al cinema “Felicità”, il senso della vita è semplice ma non facile

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Felicità, l’opera prima da regista dell’attrice Micaela Ramazzotti, è un film notevole e che ha meritato all’ultima Mostra del cinema di Venezia un premio da parte del pubblico nella sezione Orizzonti Extra.

Al centro della scena una famiglia disfunzionale composta da genitori oppressivi e figli smarriti. Attraverso la caratterizzazione dei personaggi e senza mai perdere il focus sulle loro dinamiche interpersonali, “Felicità” regala uno sguardo intimo su un tema delicato e universale come quello della sofferenza psichica. Oltre a questo, il film ha uno sguardo lucido, malinconico ma anche a sprazzi ironico, su un certo spaccato sociale.

La Ramazzotti dirige se stessa nel ruolo di protagonista. La sua Desiré sbarca il lunario come truccatrice su set cinematografici ed è fidanzata con Bruno (Sergio Rubini), un intellettuale che non si decide a volere da lei un figlio. L’uomo ha poi problemi ad interagire con la famiglia d’origine di Desiré, perché ha ben chiaro come il padre (Max Tortora) la sfrutti economicamente con ricatti morali. La madre (Anna Galliena) non è da meno, ma Desiré si ostina ad andarli a trovare perché con loro vive ancora il suo amatissimo fratello, Claudio (Matteo Olivetti). Il ragazzo è depresso, abusa di psicofarmaci e non ha alcuna prospettiva futura. L’unica speranza per lui è la volontà di aiutarlo che anima la sorella.

Scritto da Isabella Cecchi, Alessandro Guidi e Micaela Ramazzotti, “Felicità” sviscera l’origine e habitat del disagio psichiatrico di chi si trovi ostaggio di carnefici consanguinei.

Ramazzotti dipinge la miseria umana, oltre che culturale, di soggetti razzisti e ipocriti, che vivono la genitorialità come strozzinaggio nei confronti di figli che invece, pur fragili, restano dei puri. L'unica salvezza in questo buio valoriale è tenere acceso un guizzo di solarità. In mezzo alle rovine morali che li circondano, Desiré ci riesce, ma non Claudio, la cui difesa è quella di farsi trovare spento. Di una persona nelle sue condizioni dicono più le cartine di pastiglie mischiate a un gratta e vinci, che mille descrizioni didascaliche trovate in altri film su personaggi simili. La volontà di fuga dentro di lui c’è, ma non ha la forza di imboccare una qualche progettualità, cosa cui invece si è saputa aggrappare la sorella.

Quest'ultima, la protagonista, si fa voler bene, forse perché si capisce che davvero nel ritrarla e interpretarla Ramazzotti abbia dato l’anima, proprio come ha detto di aver fatto quando ha ritirato il premio al Lido. Viene facile tifare per Desiré: ha un’ingenuità che stona con l’età anagrafica, un candore che non sa proteggere e che, unito all’avvenenza, la rende facile bersaglio del predatore sessuale di turno. La donna accetta le molestie sul lavoro quasi per non apparire maleducata, abituata com'è ad avere intorno persone che si approfittano di lei fin dall'infanzia e dentro le mura domestiche. Se sul lavoro è ribattezzata la “bicicletta” perché “tutti ci hanno fatto un giro”, a casa non va meglio. Il compagno, da professore universitario più anziano di lei, sfoggia un'austerità fossile e la fa sentire continuamente inadeguata; se non la lascia è solo per la loro intesa tra le lenzuola.

In “Felicità” non ci sono scene gratuite: sia quelle sessuali che vedono coinvolta la protagonista, sia quelle contenenti i diversi sproloqui del padre, concorrono a regalare autenticità. Pur non trovandoci di fronte a una storia particolarmente originale, si resta infatti coinvolti dalla verità nuda che veicola.

Se l'opera funziona è anche grazie a interpretazioni convincenti; c’è chi è chiamato a dare il meglio in feroci litigi, chi nella compostezza apatica. La misura e la parsimonia con cui vengono dipinti alcuni di questi esseri umani, danza con l’estro e l’eccesso con cui sono volutamente raccontati altri, in un microcosmo umano fotografato da Luca Bigazzi.

Ramazzotti ha disegnato per sé un personaggio femminile che è la summa di quelli interpretati nella sua carriera e che oggettivamente si sono sempre assomigliati tra loro. Anche il contesto è quello che cinematograficamente conosce bene, in cui l’amarezza e il dolore vanno a braccetto con solare vitalità e sincera generosità.

Ha imparato molto Micaela Ramazzotti in questi anni, forse sia dentro che fuori dal set, e ha saputo farne tesoro, riuscendo a dare alle sale un film che racconta di come la vera felicità stia nel connettersi alle cose semplici e respirare valori veri.

La regola aurea poi, sembra dire nel film, è non bloccarsi a cercare di sistemare il passato e le origini, scegliendo invece di procedere oltre, affrancandosi dalle manipolazioni ma soprattutto lasciandosi guidare da una luce interiore che è l'unica forza su cui poter contare davvero.

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