Cinema

Altro che cinema: Hollywood è sempre più politicamente corretta

"Everything everywhere all at once" ha vinto sette categorie, quasi tutte le più importanti. Ulteriore testimonianza dei cambiamenti nei criteri di premiazione dell'Academy

Oscar 2023, altro che cinema: Hollywood è sempre più politicamente corretta

"Everything everywhere all at once" è sicuramente un buon film, alla faccia dei tanti detrattori. Ha idee interessanti, è girato bene e vanta ottime interpretazioni. Ma è un film che merita di vincere sette Oscar? Probabilmente no, ma ormai non è una novità. Dal manuale Cencelli ai dettami del politicamente corretto, le premiazioni dell'Academy sono cambiate, mutate: la qualità messa in disparte per fare spazio all'inclusività, opere ambiziose e meritevoli scartata perché "troppo" divisive. Il processo è iniziato già da tempo e questi sono solo i primi risultati.

Nel 2020 è arrivata la svolta buonista, con le minoranze trattate come dei panda attraverso il meccanismo delle quote. Dal 2024, infatti, sarà necessario avere un protagonista o co-protagonista appartenente a minoranze razziali (asiatico, ispanicolatino, neroafroamericano, indigenonativonativo dell’Alaska, mediorientalenordafricano, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, altro). In alternativa, il film deve avere nel cast o nel team produttivo almeno il 30 per cento di persone provenienti da categorie sottorappresentate, dunque donne ma non solo: lesbiche, gay, bisessuali, transgender, queer, etnie minoritarie negli Stati Uniti, disabili. La follia più totale, la morte dell'arte e della libertà dell'artista.

Il binomio Oscar-politicamente corretto

È dal 2017 che le scelte del'Academy fanno storcere il naso agli addetti ai lavori, nonché agli appassionati. Vittoria per "Moonlight", beffa per "La La Land", dimenticato un piccolo capolavoro come "Arrival". I record parlano chiaro: era il primo film a tematica LGBT a vincere l'Oscar e il primo con un cast composto unicamente da afroamericani. Nel 2019 il trionfo di "Green Book", la classica storia che piace agli americani ma con un tocco di inclusività, tra la denuncia del razzismo e un forte messaggio arcobaleno. In quell'occasione snobbati "Roma", "La favorita" e "Vice - L'uomo nell'ombra". Nel 2020 l'Oscar al miglior film è andato a "Parasite" di Bong Joon-ho, un'eccezione. Quello del film sudcoreano è stato un successo meritato, nonostante la caratura dei competitors. Ma non è arrivata la valanga di riconoscimenti: quattro statuette in tutto.

Le ultime tre edizioni degli Oscar hanno risposto più a logiche di inclusività che a codici di merito e di qualità. Il premio a "Nomadland" nel 2021 non ha trovato grandi applausi, ma è riuscita a smuovere più giurati di tutti per la sua riflessione su emigranti e dimenticati. Un anno fa il riconoscimento è stato assegnato all'insipido "CODA - I segni del cuore", remake (poco riuscito) de "La famiglia Belier" del 2014. Il punto di forza? La storia toccante e inclusiva. Con buona pace per film come "Drive my car", "Licorice Pizza" e "West Side Story".

E arriviamo al 2023, al nostro "Everything everywhere all at once". Come già anticipato, un film di buona fattura, facile da banalizzare per un occhio poco attento. Ma forse 7 statuette sono un po' troppe, considerando l'alta qualità dei concorrenti. Nessun riconoscimento a Steven Spielberg, stesso discorso per Martin McDonagh. Politicamente corretto al suo zenit nell'assegnazione del premio alla miglior attrice protagonista: premiata Michelle Yeoh e non Cate Blanchett. Era poco inclusivo un premio all'interprete di "Tar"? Il terzo Oscar sarebbe stato troppo? Il dubbio può venire, considerata la campagna mediatica della Yeoh e la sua richiesta esplicita di ottenere l'Oscar. Forse i giurati avevano paura di essere tacciati di razzismo..

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