Controcultura

Franco Zeffirelli, l’uomo del Rinascimento nel ’900

L’artista si racconta fra paure, passioni, amici, successi e dolori insanabili. Una vita spettacolare

Franco Zeffirelli, l’uomo del Rinascimento nel ’900

«Nel corso della mia vita mi sono trovato di fronte alla morte almeno tre volte: un bombardamento, un plotone d'esecuzione, un incidente d'auto. Quindi, non deve sorprendere che creda fermamente in Dio e che abbia un attaccamento superstizioso all'idea di destino. Malgrado sia evidente che alla vita succede la morte, faccio fatica ad accettare il fatto che un giorno morirò: come la maggior parte degli uomini accarezzo la vaga speranza di una sorta d'immortalità, e mi comporto di conseguenza». Questo l'incipit, scritto nel 2006 tra Roma e Positano, dell'autobiografia di Franco Zeffirelli, che ben rende l'idea di ciò che il lettore deve aspettarsi dal libro. La prima cosa che viene da pensare riprendendo tra le mani il volume che BUR propone in una nuova edizione in occasione del centenario della nascita del regista, infatti, è che le oltre 400 pagine siano del tutto insufficienti a raccontarlo. Franco Zeffirelli. Autobiografia (pagg. 432, euro 16) è un libro in cui stanno molte vite cui ogni misura sta stretta e per il quale ogni codice contemporaneo è riduttivo. «Artista rinascimentale», lo ha definito Giancarlo Giannini, con una «visione internazionale». Un irriducibile che, pur italianissimo, si era appropriato nel profondo, fin da giovane, del destino impostogli da quel «N.N.» che identificava nel '900 i «figli di Nessuno» come lui o, come si sentì chiamare da bambino, quel «bastardino» che sua madre portava in grembo e del quale non aveva voluto sbarazzarsi poiché era una «prova d'amore». Da subito figlio del mondo ma radicatissimo nella sua terra, tanto che quando alla fine della guerra viene portato al quartier generale delle forze Alleate e un «gentleman scozzese», scioccato dal suo look germanico - zazzera bionda e volto bruciato dal sole - gli chiede «ma sei veramente italiano?», Zeffirelli ride: «Veramente non sono proprio italiano, sono fiorentino!» e si mette a raccontarsi in quell'inglese imparato da Mary O'Neill, anziana signora della comunità britannica di Firenze, una di quelle «dame senza età», «garrule zitelle pazze per il Duce, conquistate dalla sua mascella robusta e dalla sua immagine di macho latino», tutte merletti, parasoli e cappelli di paglia che farà rivivere nel film Un tè con Mussolini. A quest'ex partigiano nasce la vocazione per il teatro mentre studia architettura e a buttar benzina su quel bruciore arriva Luchino Visconti, incontrato al Teatro della Pergola: rimane attonito, Zeffirelli. Perché era il conte Luchino Visconti di Modrone; perché era, così lo descrive, «un aristocratico, bello, ricco, elegante, al centro della vita culturale italiana. Gli scandali e i pettegolezzi sulla sua vita privata, nonché sulle sue molteplici attività sessuali, non si contavano». Ma soprattutto perché durante le prove di La via del tabacco il Maestro è in preda a una delle sue «furie apocalittiche». Urla, parolacce, insulti irripetibili: aveva aggiunto al copione di Caldwell il personaggio di una vecchia nonna, ma aveva respinto tutte le attrici proposte. Voleva una donna davvero vecchia e pazza. Dei ricoverati di Monte Domini, dove la zia lo portava in visita, Zeffirelli, ricordava una vecchina piccola piccola e tutta pepe, Virginia Garattoni. La recupera svelto e la scopre ex circense: «Ho cominciato a nove anni con le tigri e i leoni. Ora ne ho ottantacinque, sì, davvero, e so ancora saltare sui cavalli». La porta alla Pergola, la spinge sul palco, la donna incanta Visconti, Zeffirelli si fa avanti, Visconti ringrazia, profetizza: «Bravo, se sai recitare come sai scovare i talenti, avrai una bella carriera». E lo aspetta l'indomani: «Voglio conoscerti meglio». È fatta: il teatro ha spalancato per sempre le sue porte. E poi saranno il cinema, la lirica e, dopo l'Italia, Parigi, Londra, fino agli Stati Uniti: Zeffirelli arriverà dappertutto, perché quei luoghi erano dentro di lui fin dall'inizio, li possedeva già, doveva soltanto viverli. Il volume è in cinemascope, il racconto è una sceneggiatura, le scene, gli incontri hanno dialoghi, odori, colori e una schiettezza che lo rappresenta al meglio. L'esplorazione in Egitto per l'Aida al Cairo, l'incontro con Sadat e il suo assassinio, che interromperà il progetto, rendendolo uno dei più grandi ripianti della sua vita. Il rapporto con Oriana Fallaci (racconta il retroscena dei «calzini sudici» che interruppero la storia tra lei e Panagulis, uno dei gossip più divertenti del libro), alla quale, racconta, disse ex abrupto, da fiorentino a fiorentina, in un incontro casuale per le strade di New York quando lei è già «l'italiana più famosa del mondo»: «Tu lo sai bene che della tua intelligenza, dei tuoi successi non me n'è mai fregato nulla. È la tua bellezza che mi ha sempre fatto delirare, e non so ancora spiegarmi perché non siamo mai finiti a letto insieme!». E poi ancora il suo amore e il suo dolore per Maria Callas - tanto che egli stesso si definisce «vedovo della Callas» per anni - che lo porta a cercarla in ogni altra interprete, a partire da Teresa Stratas e Katia Ricciarelli, che poi condurrà a un successo globale - e di cui descrive un divertentissimo primo incontro: «Fu una terribile delusione. Una donnona in cui tutto era grande: bocca piena di denti forti e bianchissimi, naso, immensi occhi splendenti, spalle, braccia. Ma le gambe, soprattutto, erano più che grasse, gonfie. Vestita malissimo, in un modo che non aiutava assolutamente il suo look: un tailleur di velluto verde che metteva in risalto tutti i suoi difetti, soprattutto il seno smisurato... Senza parlare del pesante accento da americana di Brooklyn». Insomma un disastro. Lei è nata nel 1923, avevano entrambi 25 anni in quel momento, imbarazzati e inesperti: fu, nonostante la prima impressione l'inizio di un idillio che non si chiuderà mai, nemmeno quando 25 anni dopo la morte di lei, Zeffirelli gira il film Callas forever. E poi, dopo Romeo e Giulietta, per cui è nominato all'Oscar, l'incidente quasi mortale, in Rolls Royce, nel 1969. In ospedale, dove riceve fiori persino dai Beatles, arriva un sogno notturno, che diventa una fissazione: Francesco d'Assisi. Parla con lui attraverso una medaglietta (anche se ammette di essere un «cattolico pigro»), e il santo risponde. Nascerà da questo il film che ha incantato il mondo, Fratello sole sorella luna, di cui nel libro racconta tutto, dalla ricerca dei poverelli alla scelta dell'attore giusto alla nascita dell'Inno che guida uno dei film che gli costarono più fatica fisica.

Ma che divenne uno degli esempi forse più limpidi della sua visione «internazionale» che gli fece incarnare, nel post '68 delle esaltazioni politiche giovanili, in un santo del Medioevo il rivoluzionario più grande.

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