Cinema

"Dogman", il thriller-drama di Luc Besson nasce già cult

Un film che omaggia i cani per gli esseri divini che sono, esplora la tematica della sofferenza e ne racconta gli unici due antidoti possibili, l’amore e l’arte. Caleb Landry Jones in un’interpretazione che resterà

Venezia80: “Dogman”, il thriller-drama di Luc Besson nasce già cult

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Luc Besson è tornato ed è quello dei tempi d'oro. “Dogman”, il suo nuovo film presentato in anteprima mondiale in concorso al Festival di Venezia 2023, è quel che si dice un titolo con tutte le caratteristiche per diventare nel tempo un cult, proprio come altri da lui firmati in precedenza, tipo "Nikita” e “Léon" .

"Dogman" arriva a ben quattro anni di distanza dal precedente film, “Anna”, e soprattutto dopo accuse di molestie da cui Besson è stato scagionato. A incendiare i cuori in sala e far gridare apprezzamenti in sala stampa è un’opera che racconta la straordinaria storia di un uomo che è segnato dalla vita fin da bambino e che ha trovato la salvezza attraverso l’affetto dei suoi cani. Del resto l’incipit vede campeggiare sul grande schermo una citazione di Lamartine: “Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane.”

Il diciannovesimo lungometraggio di Besson è girato in lingua inglese tra la Francia e gli Stati Uniti. In parte dramma e in parte thriller, “Dogman” ha una prima parte folgorante e che richiama un po’ “Il silenzio degli Innocenti”. Vediamo un uomo, Douglas (Caleb Landry Jones), che è in stato di fermo in prigione ma, siccome al momento dell’arresto era travestito da Marilyn Monroe, gli agenti non hanno ancora deciso a quale reparto del carcere destinarlo. Viene quindi chiamata nel bel mezzo della notte una psichiatra perché esamini il caso e dia un suo parere. Con questa giovane madre di colore Douglas si apre senza filtri e risponde alle domande sul suo passato, ripercorrendo l’infanzia atroce, vissuta in balia di un padre violento. Se ha sviluppato un rapporto simbiotico con i cani (lo hanno ammanettato mentre era a bordo di un camion che ne trasportava in quantità), è perché da piccolo fu rinchiuso e lasciato a vivere per un tempo interminabile nella gabbia in cui il genitore aveva decine di cani da combattimento.

La prima volta che vediamo Caleb Landry Jones nei panni di Douglas, il suo volto è un miscuglio di trucco e tumefazioni incorniciato da una parrucca bionda. L’attore è ancora poco conosciuto al grande pubblico ma non si vedeva un’interpretazione tanto eccezionale in termini di bravura dai tempi in cui qui al Lido passò il Joker di Joaquin Phoenix (scandalosamente scippato della Coppa Volpi da Luca Marinelli e risarcito poi con l’Oscar).

La vicenda intensa ed enigmatica di un emarginato, sopravvissuto ad un tessuto familiare fortemente abusante, viene espressa attraverso flashback nati da un dialogo, quello tra il protagonista e la psichiatra, che è ricchissimo di sensibilità e intelligenza. Douglas è un giovane che ha vissuto sfide enormi affidandosi sempre a Dio, di cui i cani sono emanazione terrena evidentemente. Ad un certo punto la gabbia in cui Douglas giace da bambino vede campeggiare sulla porta un lenzuolo con una scritta in cui la parola God, vista da dentro e quindi al contrario, si legge “dog”. I riferimenti cristologici sono molteplici e voluti: il protagonista sia nel climax del racconto via flashback che nel tempo presente, si troverà a terra nella posa di Gesù in croce. Quando non si mette nelle mani del cielo, si mette in quelle dell'arte, leggendo e recitando Shakespeare ("il teatro è una religione") circondato da amorevoli angeli custodi a quattrozampe ("tutti gli uomini cercano amore e protezione").

Colpiscono la calma e la lucidità con cui l’uomo si esprime. Ha elaborato quanto di drammatico accadutogli negli anni, anche il sopraggiungere di un’infermità e una cocente delusione amorosa, sublimando rabbia e desiderio in padronanza di sé. La complessità emotiva ha assunto la forma di una saggezza sui generis, che vede nel parallelo tra uomini e cani una piccola gemma, la cui chiosa definitiva recita: “i cani hanno tutte le virtù degli esseri umani senza averne i difetti. Anzi, ne hanno uno, quello di fidarsi degli uomini”.

Solo la terza parte del film, quella che si riallaccia agli ultimi mesi precedenti al carcere, appare eccessivamente dilatata e ripetitiva. Qui siamo in piena deriva action e ci si allontana troppo dalla cornice del dialogo in cella: “Dogman” sul finire ha momenti in cui appare uno strano caso di Disney in salsa pulp, dal momento che i cani diventano armi letali senza perdere in amorevolezza e ispirare un sorriso.

Un film non perfetto quindi, ma galvanizzante, particolare e che ci restituisce un cineasta al suo massimo.

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