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"Una città è bella solo se ci fa vivere bene"

I grattacieli di Manfredi Catella hanno cambiato il volto di Milano: "Abbiamo recuperato la tradizione del saper costruire. E ora guardo al Sud"

"Una città è bella solo se ci fa vivere bene"

Là dove un tempo c'erano solo parcheggi sterrati, un Luna Park e un campo rom, ora ci sono i grattacieli che simboleggiano il riscatto dell'Italia nel mondo. Protagonisti di spot pubblicitari di ogni tipo e meta irrinunciabile dei turisti. Quei grattacieli Manfredi Catella li immaginava anche quando suo padre Riccardo lo portava a passeggiare fra i marciapiedi sgangherati di quel quartiere oscuro di Milano. E ora, quando si siede sulle panchine di piazza Gae Aulenti, guarda le facce della gente che scatta fotografie al palazzo di Unicredit e al Bosco Verticale, e pensa: «Sì, ce l'abbiamo fatta». Ce l'ha fatta a creare una nuova fetta di città, Porta Nuova. Ce l'ha fatta a convogliare, in un'Italia in piena crisi, i dollari degli investitori più allettanti, a cominciare da quelli del Qatar. Ora l'immobiliarista che vuol far dimenticare la vecchia idea dei palazzinari, ha già in animo (e in rendering) altri progetti: da via del Corso a Roma al Lido di Venezia. Niente estero, per ora: «C'è così tanto da fare qui da noi» sostiene.

Lei verrà ricordato come l'uomo che ha cambiato lo sky line di Milano.

«Ho semplicemente tenuto il timone di una squadra».

Semplicemente? È stata un'operazione immobiliare mastodontica. Prima di lei ci hanno provato in tanti a ridisegnare Milano.

«Questo sì. Pensi che il primo concorso di architettura di Porta Nuova risale a Mussolini. Da allora, con una certa periodicità nei decenni, la riqualificazione dell'area diventava oggetto di dibattito. Fino ad arrivare alla fine degli anni Novanta quando il sindaco Gabriele Albertini pensò di farla diventare sede della Città della moda, un distretto dove concentrare la creatività».

Però nemmeno quel progetto fu mai realizzato. Perché tutti hanno sempre mollato il colpo?

«L'area era frammentata fra circa 30 proprietari, in nessun modo consorziati: una compagine variegatissima che non si metteva d'accordo. Questo è stato il vero grande ostacolo perché un progetto diventasse cantiere».

Finché?

«Finché arriviamo noi, l'azienda di famiglia insieme ad Hines Italia, ora Coima, e ci mettiamo in testa che il progetto va assolutamente fatto. Prendiamo la valigetta e cominciamo ad andare da tutti i proprietari. Avviamo una trattativa, uno per uno, per cercare di acquisire tutte le tessere e ricomporre il mosaico. La negoziazione dura cinque anni. Però ce l'abbiamo fatta».

Immaginava tutto così?

«Quando progetti una parte di una città così ampia non riesci mai a percepire davvero come sarà tra modelli e rendering. Non hai la certezza del risultato. Ma eravamo molto motivati».

Il quartiere dei grattacieli è stato un riscatto per l'Italia. È un modello replicabile altrove?

«Abbiamo recuperato la vocazione per cui l'Italia è sempre stata famosa: cioè il saper costruire, il valore della committenza. Questa vocazione era stata persa».

Per anni invece ci siamo abituati agli affari poco chiari dei palazzinari, agli appalti un po' loschi, alle opere lasciate a metà.

«A fine degli anni Novanta c'è stato un progressivo deterioramento dell'architettura. Non si parlava più di architetti ma di geometri e gli immobiliaristi erano persone opache. Noi abbiamo cercato di tornare alla normalità della storia del nostro Paese. In Italia è stata un'eccezione quel brutto periodo. Noi vogliamo riscattare il settore dell'immobiliare».

Cos'è per lei una città bella?

«La straordinarietà delle città è fatta dalla qualità del non costruito. Una città non è bella per i palazzi ma per le piazze, le strade, per lo spazio pubblico che ti fa stare bene. Per questo Porta Nuova è stata una rivoluzione copernicana dell'architettura».

La soddisfazione più grande?

«Il sindaco di Milano Giuseppe Sala, quando presenta Milano nel mondo, utilizza una brochure che ha in copertina Porta Nuova. Vent'anni fa per presentarsi in Europa sarebbe stato impensabile usare l'immagine dei palazzi».

Esistono altri Catella in Italia?

«Con Porta Nuova abbiamo creato un nuovo paradigma da seguire, abbiamo creato discontinuità e alzato l'asticella per qualità e riqualificazione. Quello che mi aspetto è che nascano altre realtà. Questo è solo un inizio».

L'era della discontinuità?

«Sì, per l'immobiliare e in generale per tutto. Pensi alle nuove generazioni. C'è un'enorme discontinuità rispetto al passato: sono più connesse, viaggiano, non vogliono più la macchina di lusso ma l'esperienza, c'è una matrice culturale più meritocratica, meno locale».

Però l'Italia, con 5 milioni di stabili abbandonati, resta sempre il Paese delle opere mai finite e degli ecomostri.

«Per rinnovare il patrimonio edilizio ci vorrà molto tempo ma l'importante è che sia stata presa la direzione. Ci sono tanti progetti in fieri, c'è un fermento che ancora non si vede ma si vedrà».

Oltre a Milano in quali altre città?

«Ad esempio a Roma. Noi stiamo riqualificando un edificio in via del Corso, mezzo abbandonato. Diventerà un albergo con negozi».

E poi Venezia, giusto?

«Stiamo riqualificando il Lido. Abbiamo riaperto l'hotel Excelsior e lavoreremo anche sul Des Bains. Il nostro ruolo è stato chiesto dalle banche per riordinare un fondo immobiliare che era in default. Per ora abbiamo riqualificato tutto sulla carta, presto lo faremo anche con i cantieri. Sarà un progetto pilota per rilanciare il turismo in Italia».

Rilanciare il turismo? Ambizioso.

«Ci vuole una riunione dei soggetti che ora hanno proprietà nel Lido: in primis il Governo con Cassa Depositi e Prestiti. Noi di Coima abbiamo già lavorato su tutto il master plan ma si può ampliare solo se il Governo identifica questo tipo di priorità per il Lido».

Cosa ha in mente?

«Negli anni Venti e Trenta il Lido era un luogo geniale: ne hanno fatto un golf, uno dei più belli d'Italia. A Nord un aeroporto, nella parte centrale dei grandi alberghi. C'è un'isola pensata per essere dedicata a cure con sabbia e sale e allo sport. C'è il tirassegno più antico del Paese, c'è il maneggio. Sarebbe fantastico, sarebbe un'isola certificata sulla sostenibilità dove si va in bici dappertutto, i mezzi sarebbero solo elettrici. Non la userebbero solo come copertina di una brochure, ci farebbero un film».

Tutto questo solo se il Governo ne intuisce il potenziale turistico?

«Noi seguiamo la nostra tabella di marcia. In attesa che il Governo voglia ragionare su un progetto di più ampia portata. Il turismo è fondamentale ma non ancora del tutto sviluppato. Vorrei veder diventare il Lido un progetto pilota per il settore».

Ha messo gli occhi anche sul Sud Italia?

«Sarebbe una straordinaria opportunità. Il clima lo rende fruibile all'aperto 12 mesi all'anno. Ma ha tutti i limiti che conosciamo».

Quando la burocrazia diventa insormontabile.

«Dobbiamo trovare progetti in grado di dimostrare che quando le cose si fanno seriamente generano economia e fanno bene a tutti. Pensiamo al Qatar, che mai sarebbe venuto a investire in Italia se non ci fosse stato un progetto forte».

Con Porta Nuova ha dimostrato a Milano che «si può fare». Però il «si può fare» al Sud ha un gusto un po' diverso.

«A Milano abbiamo lavorato con quattro amministrazioni e governi di segno diverso. Si deve consolidare la consapevolezza che vanno sostenuti i progetti forti e ben identificati che hanno le caratteristiche per diventare emblematici. Perché poi diventano virali, innescano un seme positivo che ha effetto espansivo».

Ruolo del Governo? Per Arexpo ha cercato di fare da regista.

«Il Governo non deve fare lo sviluppatore economico. Semmai deve fare da facilitatore. Sta a noi immobiliaristi cambiare codice».

E le banche? Diciamo che un tempo per un immobiliarista era un po' più semplice chiedere un finanziamento.

«Le banche stanno passando da approccio relazionale a approccio più di merito. Non danno più i soldi al cliente per conoscenza. Finanziano il progetto perché ha un impatto economico vero».

Banche, investitori, immobiliaristi. Un mondo di lupi in cui lei è entrato molto giovane. Che insegnamento le ha lasciato suo padre Riccardo?

«Mio padre non diceva cosa fare. Era un galantuomo romantico che nei suoi comportamenti faceva trasparire il valore. Era umile e generoso, molto istruttivo ma non aneddotico. Lui è morto a 60 anni, io non avevo l'esperienza professionale alle spalle. Ma i suoi valori c'erano. Non sapevo di averli, ma evidentemente li ho tirati fuori quando mi sono serviti, tipo valigetta degli attrezzi».

Lei ha cominciato a 22 anni. Suo figlio Ludovico, il più grande, ne ha 20. Seguirà le sue orme?

«Sta studiando economia, gli interessa la finanza, io non lo spingo, non lo farei mai. Farà la sua strada».

E i suoi figli più piccoli? Hanno l'anima dei costruttori? Tipo grattacieli di Lego?

«Riccardo, 11 anni, è un costruttore nato, non solo con il Lego ma con tutto ciò che gli capita. Non mi metto a comprargli il gioco da costruire apposta, ha un talento tutto suo. Non c'è nessun indottrinamento».

E gli altri tre figli come sono?

«Sofia, 13 anni, è super sportiva e molto responsabile. Linda, 8 anni, è l'anima artistica e creativa della famiglia. E poi c'è Russell, 3 anni, il piccolino di casa, il boss con il sense of humor».

E poi c'è Kelly. Si dice che dietro a un grande uomo ci sia sempre una grande donna.

«È lei il vero capo di tutta la banda».

Bella, elegante, gestisce la comunicazione della società, dirige la fondazione Catella.

«È una donna estremamente generosa, molto logica e con capacità di separare completamente coppia e rapporto professionale. Per questo non ci sono gelosie, invidie o contrapposizioni. Resta tutto fuori dalla porta. La cultura americana da questo punto di vista è più schematica. E quindi funziona».

Com'è lavorare assieme?

«Andiamo alla grande. Arriviamo entrambi da condizioni molto semplici. Io sono cresciuto nelle case popolari di Zingonia. Lei viene da una famiglia di agricoltori della Georgia. La base di valori semplice ce l'abbiamo».

Oltre alla moglie, nella sua vita e formazione ha parecchi elementi internazionali. A cominciare dagli studi all'estero. Elementi che mancano ad altri immobiliaristi italiani?

«Io sono patriottico, forte difensore dell'Italia. Però mi rendo conto che l'Italia è un Paese che deve alzare la testa. Per tanti anni ha vissuto di relazioni, di rendite di posizione e alla fine ha sempre avuto la tendenza a difendere lo status quo. Oggi dovremmo rinverdire le radici nobili e le nostre vocazioni, pur guardando fuori. Qui c'è tanto da fare».

Cosa? Su cosa dobbiamo investire?

«Gli anni Ottanta erano il periodo dove erano i master in amministrazione a dominare, ora le competenze sono più umanistiche e scientifiche. Questo è il tema centrale. Abbiamo vocazioni inespresse come il turismo. E poi la moda. Due asset formidabili del nostro Paese, ma forse ci manca la capacità di lavorare davvero in squadra».

Qual è un modello vincente da cui prendere esempio?

«Il primo Paese che mi viene in mente è la Spagna. Su turismo, moda e immobiliare si è reinventata pur avendo, questo va detto, meno ingredienti di noi.

Sono diventati competitivi a livello mondiale con tanti marchi, da Zara a NH hotel».

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