La colpa mortale di essere convertito al cristianesimo

Arturo Diaconale

Abdur Rahman è un afghano rifugiato in Italia per sfuggire ad una condanna a morte comminatagli dal Tribunale islamico di Kabul. La sua colpa non è di aver ucciso, rubato o commesso altri atti che agli occhi degli occidentali possono non giustificare ma provocare la pena capitale. È di essersi convertito al cristianesimo. La legge islamica stabilisce che chi ripudia la religione del Corano e le preferisce una qualsiasi altra religione è colpevole del peggiore reato di cui si può macchiare un musulmano. E per questo motivo va portato sul patibolo.
Su questo punto, come ha dichiarato a Repubblica uno degli studiosi e dignitari islamici più rispettati dell’Afghanistan, Abdul Wajed Sahibzada, non ci sono e non ci possono essere dubbi di sorta. Tutte le scuole coraniche, secondo quest’ultimo, sono d’accordo nello stabilire che «l’abbandono dell’Islam è uno dei tre reati punibili con la pena di morte secondo la legge coranica». Un convertito vale un adultero o un assassino. Si tratta, sempre a detta di Sahibzada, di un «pilastro della nostra tradizione giuridica», costruito con estrema chiarezza dallo stesso Profeta in due diverse sure del Corano. E nessuno può metterlo in discussione.
Ma il punto che la vicenda pone è proprio questo. Gli occidentali possono o non possono discutere sul giudizio concorde delle scuole coraniche secondo cui i trasfughi dell’Islam debbono essere messi a morte?
L’interrogativo non è per nulla strumentale ma di strettissima attualità. I rapitori di Gabriele Torsello hanno chiesto lo scambio del fotografo italiano convertito all’Islam con l’afghano convertito al cristianesimo proprio sulla base della considerazione che il rinnegato va eliminato in nome di Dio Unico e Misericordioso.
Che fare, allora? Per salvare Torsello si può riportare a Kabul Abdur Rahman e consegnarlo a chi lo vuole morto sulla base della propria legge? Oppure, in nome della Costituzione e della legge italiane che escludono la pena di morte, bisogna difendere il diritto all’asilo del musulmano convertito al cristianesimo e correre il rischio che il nostro connazionale diventato islamico possa subire le ritorsioni dei suoi rapitori?
Queste domande vanno girate a chi sostiene l’equivalenza e la parità assoluta delle culture. Ed a chi predica sempre e comunque la necessità del dialogo e del confronto tra le religioni e le etnie diverse.
Non perché si convinca che l’equivalenza tra religioni e tradizioni culturali non esista. E neppure perché rinunci alla speranza che il dialogo pacifico possa e debba avere sempre la meglio sull’uso della forza. Ma perché si renda conto che ci sono dei momenti estremi in cui non esiste più alcun margine al compromesso. In cui diventa indispensabile assumere la responsabilità di compiere una scelta netta e priva di equivoci di sorta.

O si è dalla parte della Costituzione e dei suoi valori, o dalla parte della Sharia e della sua tradizione.

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