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Inutile negare l'evidenza. Il terrorismo rosso aveva le radici "culturali" nella propaganda del Pci

Inutile negare l'evidenza. Il terrorismo rosso aveva le radici "culturali" nella propaganda del Pci

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IL COMUNISMO

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Forse sarebbe anche il caso di parlare delle connessioni fra il comunismo italiano e il terrorismo rosso. È vero che all'epoca del sequestro di Aldo Moro Berlinguer assunse una posizione durissima affinché non si arrivasse a una trattativa con le Brigate Rosse (trattativa che avrebbe dato un riconoscimento politico ai delinquenti che insanguinarono l'Italia per parecchi anni, con omicidi, gambizzazioni -- orribile parola); ma è anche vero che nel secondo dopoguerra il Pci il più grande partito comunista occidentale ebbe un atteggiamento a dir poco equivoco verso la vita democratica nel nostro Paese. Quando De Gasperi escluse i comunisti dal governo, la macchina propagandistica del PCI parlò di Resistenza tradita. Dunque, la nostra Repubblica perdeva, secondo i comunisti, qualunque legittimazione. Ho parlato della macchina propagandistica del PCI: un complesso mastodontico (varie edizioni dell'Unità, vari settimanali, federazioni con centinaia di funzionari), reso possibile dai massicci finanziamenti provenienti dall'Unione Sovietica (per la quale i comunisti avevano un vero e proprio culto: era per loro un mondo nuovo, una democrazia di tipo nuovo). Per molti anni il Pci ebbe un proprio apparato clandestino, con depositi di armi e di munizioni, poiché una grossa fetta del partito attendeva l'ora X, in cui i comunisti avrebbero preso il potere. Il mito dell'ora X non era presente solo nella base del partito, ma anche ai vertici (si pensi alla figura di Pietro Secchia, per parecchi anni vicesegretario del PCI insieme a Longo). Quell'apparato clandestino mostrò tutta la sua forza in occasione dell'attentato a Togliatti (frutto non di un complotto, ma gesto solitario di un folle): il Paese fu messo a soqquadro, si creò un clima insurrezionale, e se Togliatti fosse morto molto difficilmente si sarebbe evitata una guerra civile. Con ragione, dunque, una autorevole dirigente del PCI, passata poi al gruppo del Manifesto, Rossana Rossanda, quando apparvero i proclami delle Brigate Rosse parlò dell'«album di famiglia»: le parole d'ordine dei Brigatisti coincidevano perfettamente con le parole d'ordine di Stalin, di Zdanov, cioè dei capi dell'URSS, verso i quali il Pci aveva mostrato per molti anni una piena adesione. La cultura, per chiamarla così, dei Brigatisti rossi era la cultura diffusa a piene mani dal PCI per lunghi anni. Quando scoppiò il Sessantotto, il Pci cercò di cavalcare il movimento: il segretario del Pci Longo ricevette una delegazione capeggiata da Scalzone. Solo con la segreteria di Berlinguer il Pci cercò di differenziarsi dall'URSS, e affermò che una società socialista avrebbe dovuto avere vari partiti e movimenti politici, avrebbe dovuto garantire il dissenso, la libera manifestazione delle opinioni. Berlinguer giunse ad affermare che si sentiva più sicuro in Occidente, sotto l'ombrello protettivo della Nato. Ma la base comunista reagì con grande freddezza a queste posizioni berlingueriane (per non parlare dei dirigenti filosovietici come Armando Cossutta): quando, nei suoi comizi, Berlinguer toccava questi temi, si creava un silenzio gelido e non veniva applaudito, Ciò costrinse il segretario del Pci ad affermare che i regimi dell'URSS e dei paesi satelliti avevano alcuni tratti politici illiberali, ma che la loro struttura economica era sana.

Questo era il risultato inevitabile di lunghi anni di politica comunista (da Togliatti a Longo) inneggiante al totalitarismo sovietico, cioè alla negazione intransigente della democrazia politica.

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