Contro la droga la terapia sono gli ideali

Di droga si parla da anni. E si ha l’impressione di aver ormai detto e sentito tutto sul problema. Mi è capitato di visitare qualcuna tra le case ospitali di questi malati: anzi forse la più ampia e consistente in Italia. Si entra per un cancello ampio e accogliente: si trova lo spazio per l’allevamento dei cavalli, la porcilaia, i pollai, i laboratori artigianali, e tante espressioni di una vita laboriosa.
Oggi continuano le comunità terapeutiche, ma sembra che abbiano mutato natura e finalità. Intanto, camminando per i viali e chiedendo spiegazioni, ci si interroga se queste opere sono state fatte contro la droga o per qualcosa o qualcuno. Certo, si impone l’uso di terapie che gradualmente liberino da una schiavitù farmacologia che esalta in maniera mantica o abbatte in maniera debilitante come in certe case di cura che hanno quasi soltanto il fine di attutire le scalmane di certi momenti incontrollati. Ma c’è ben altro. C’è il fatto che i ragazzi, ospiti strani e bisognosi di aiuto, chiedono soprattutto degli ideali per cui vivere.
La droga esige innanzitutto il recupero di una serietà che impegni in un lavoro nella vita: magari non per giungere ad una laurea, ma per piegare la schiena in una fatica che alla sera prepara a dormire senza soverchi sonniferi. Non c’è esistenza che si compia senza un progetto. Non si cresce a caso. Non si matura bighellonando da una discoteca a un’altra, da un gioco aleatorio a un altro, affidandosi a una fortuna che spesso tarda a venire - o non viene mai - e che comunque lascia forze vitali inespresse e sempre più afflosciate. Qualche decennio fa l’impasticcato si poteva atteggiare a una sorta di eroe che butta la vita rinnegando tutti gli schemi della vita banale e inventando delle stranezze che assomigliassero un poco a esibizionismi. Oggi le cose sono cambiate. Il drogato assomiglia meno all’Orlando Furioso e assai più all’annoiato. Una fatica enorme è l’organizzare la giornata, prima di metterla in atto: anzi, ci si rifiuta di metterla in atto e perfino di porre in fila gli impegni che si vogliono onorare. E ci si ritrova tra stracci e sbadigli e urla di disperazione: ci si chiude come in una botola, e il mondo si aggiusti; e gli altri se la cavino come riescono, violenza non esclusa. Il lavoro può essere certamente descritto come un castigo di Dio. Ma senza un lavoro si finisce per rimanere nanerottoli afflosciati, specie di pupazzi che non si protendono a nessuna meta, e dunque finiscono per ritrovarsi vuoti non solo di ideali, ma anche di voglia di compiacersi per le opere compiute. Dimmi che cosa intendi fare da grande e ti dirò chi sei, anche se hai tredici anni. Tutto ciò richiede fatica.
Ma non bisogna meravigliarsene. Forse occorre trovare il coraggio di qualche sgridata e di qualche no di fronte a pretese capricciose. Uno inizia a esistere veramente, quando si sente accettato così come è e non inquadrato in una cornicetta sdolcinata o in una sorta di inferriata feroce. Durante la strada dell’esistenza si comincia a erigersi e ad appassionarsi soltanto quando si incontra qualcuno capace di donarsi senza emettere fattura: donarsi per donarsi; donarsi perché l’altro deve cambiare, perché l’altro esiste. Uno degli ostacoli più gravi da superare per vincere la ripiegatura rassegnata su di sé e la noia che ne deriva, è la rinuncia a costruire qualcosa di nuovo e a protendersi verso un mondo migliore. Ed ecco la droga.
Dunque ci si svincola dalla dipendenza dalla droga, quando si incontra qualche amico capace di contraccambiare: capace di condividere sogni e fatiche per giungere a una gioia comune. Guai ai soli. Attenzione, si attaccano agli stupefacenti anche perché i drogati nascondono un problema affettivo. Quando tu offri loro questo amore, questi lo rifiutano: spesso perché non ne hanno mai avuto veramente. La famiglia è il luogo in cui fa sintesi tutta questa somma di esigenze e crea delle sintesi personali capaci di coesione e di iniziativa. Infine può sembrare un fuori tema: ma si trova la forza per vincere la seduzione della droga soprattutto quando (per chi ha la fortuna di credere) si prega, e si incontra il Signore Gesù che è la felicità ampia e profonda come il cielo.

E occorrono valori non negoziabili su cui consumare le forze per giungere stanchi e felici alla fine della giornata e della vita. Tutto questo non è lavoro educativo?

Commenti