Cultura e Spettacoli

Cornelio Fabro l’«allievo» di S.Tommaso

Nella sua opera la riscoperta di una fede «radicale» che non cede al modernismo

Con la scomparsa di Padre Cornelio Fabro, avvenuta dieci anni fa a Roma, il panorama filosofico italiano perse una delle figure di maggior spicco. Se l’emergere di nuove vocazioni per gli studi della metafisica è un evento ancora tutto da verificare, certo è l’inizio della pubblicazione delle Opere complete per i tipi dell’Editrice del Verbo Incarnato e per impulso del Progetto culturale Cornelio Fabro, che ha sede a Segni, in provincia di Roma, ed è diretto da Elvio Celestino Fontana. Il primo scritto fabriano proposto all’attenzione dei ricercatori si intitola La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso d'Aquino (pagg. 428, euro 35): si tratta di un testo risalente al 1939, che fin dal titolo indica con chiarezza quale fu il centro attrattivo di tutta la speculazione di Fabro, ovvero la filosofia di San Tommaso. Nell’Aquinate, Fabro vide un pensatore di straordinaria attualità, capace di interloquire fecondamente con la modernità e di svelarne le drammatiche debolezze. E proprio riguardo al rapporto tra cristianesimo e cultura moderna, padre Fabro non esitò a lanciare un accorato appello contro ogni cedimento e ogni compromesso che ai suoi occhi la coscienza cattolica aveva iniziato a manifestare, in particolare attraverso la cosiddetta teologia progressista, che egli giudicò viziata da un eccessivo antropologismo. Fabro riteneva che l’apertura del cattolicesimo al mondo non dovesse comportare un annacquamento delle sue verità, neppure di quelle che apparivano più scomode per la mentalità contemporanea, quale è quella della presenza del male e del peccato: egli non voleva che il Vangelo venisse edulcorato nell’illusione che ciò potesse servire a ricondurre il mondo a Dio, ma piuttosto riteneva che soltanto la radicalità della fede autentica sarebbe stata in grado di riconquistare al cristianesimo la mente e il cuore dell’uomo moderno. Ma non per questo Fabro eluse il confronto con la filosofia moderna e contemporanea: fu il primo traduttore e il maggiore conoscitore italiano del pensiero di Kierkegaard, il filosofo danese della prima metà dell’Ottocento considerato l’anticipatore dell’esistenzialismo. La sua interpretazione dell’opera kierkegaardiana, che egli giudicò meno lontana dal tomismo di quanto si possa ritenere a prima vista, rimane un punto fermo della storiografia filosofica del Novecento. I biografi ci informano che Cornelio Fabro fu un bambino dalla salute estremamente cagionevole, addirittura incapace di parlare fino all’età di cinque anni (affascinante e misteriosa l’analogia con San Tommaso, soprannominato il «bue muto» a motivo della sua forte inclinazione al silenzio!); ma ci fanno anche sapere della sua attività di scrittore (ben cinquantaquattro volumi), e ci dicono dei suoi lunghi anni di insegnamento universitario e degli innumerevoli riconoscimenti tributatigli da prestigiose istituzioni civili e religiose.

Sempre i biografi ricordano anche che egli fu un prete che non si sottrasse mai al suo ministero: confessore, predicatore, Fabro considerò la cattedra universitaria il suo pulpito preferito e la ricerca filosofica un vero e proprio cammino ascetico.

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