Controstorie

Corrida: adios spagnolo La fiesta passa in Francia

Dopo l'ultimo divieto in Catalogna, i toreri si rifugiano ad Arles. Dove sono ancora amati

Manila Alfano

Un anfiteatro romano, bandierine, sangria e paella fuori aspettando di godersi il combattimento. Dentro, una voce all'altoparlante incita la folla a entrare. Lo spettacolo sta per cominciare. C'è aria di festa e di tragedia. È il sangue - come un vecchio rito pagano - che fa orrore ed eccitazione. «Una corrida cento per cento francese», assicura la voce metallica al microfono. E sono applausi e ovazioni.

La corrida sfrattata dalla Spagna, non muore ma si sposta, attraversa il confine e arriva in Camargue, la parte più spagnola della Francia. E Arles torna a splendere di tauromachia e di flamenco.

Il Paese dei tori ha chiuso con gli spettacoli di sangue. Gli animalisti prima, i politici poi. La sinistra davanti agli altri, poi quelli di Podemos di Pablo Iglesias. Tutti contro la corrida, a urlare che orrore, che inciviltà uccidere esseri viventi per uno spettacolo. E così toreros addio. Nel 2012 la Catalogna, la più ostentatamente isolazionista tra le Comunità Autonome, aveva scelto di cancellare il cosiddetto sport nazionale dal calendario. Prima le Canarie nel 1991. Una decisione che ha subito assunto una valenza politica, una sorta di schiaffo a Madrid nel perenne dualismo che ha nel calcio un altro illustre esempio. E così via: lì i tori non muoiono più per mano dei toreri. La Monumental, edificio costruito ad inizio Novecento, luogo simbolo di Barcellona, ha chiuso i battenti e ora è meta di visite guidate, aspirante Colosseo del Ventesimo secolo. Las Arenas, l'altro tempio della tauromachia della metropoli catalana, è da tempo stato chiuso e riconvertito in centro commerciale.

Ad Arles invece è un'altra storia. L'aria che si respira è di festa e di rinascita. Di orgoglio e di rivendicazione. Qui non si vedono animalisti imbizzarriti o politici indispettiti. Qui si vive il momento che da anni si aspettava. Si consumano paella e sangria con l'avidità della promiscuità culturale e si balla flamenco. Attenzione, dicono orgogliosi gli addetti ai lavori: non è appropriazione ma assimilazione. La Francia è stato il primo Paese a dichiarare la tauromachia Patrimonio culturale immateriale. Era il 2011. Un anno dopo la Catalogna avrebbe chiuso i cancelli delle arenas. Arles ha lavorato sodo in questi anni, non ha mollato mai. E oggi raccoglie i frutti. Dieci anni fa Simon Casas formava il primo sindacato di toreri francesi. Erano in pochi. Isolati ma ostinati, clandestini, contro la colonizzazione spagnola. I cugini forti, quelli che dettavano legge. Serie A contro serie B. Sognavano la rivoluzione della tauromachia francese e oggi è arrivato il momento della rivincita. L'energia che si respira è grandissima, c'è voglia di riscatto, e di applausi, di gratificazione dopo la fatica, di rimettere l'accento giusto sulla parola Olè.

«La necessità di difendere la tauromachia in una situazione di assedio ci ha convertito in pionieri di iniziative politiche», spiega Andrè Viard, un ex torero di Arles oggi sindacalista. «La Spagna ha dato per scontato che la corrida sarebbe stata eterna e che non sarebbe stato necessario proteggerla. Per questo il Paese intero ha reagito tardi. Hanno vinto le divisioni interne, non hanno saputo utilizzare il marketing e si è finiti in una palude di esasperante passività». La Catalogna con gli animalisti, i politici a ruota hanno fatto da traino a tutta la Spagna. Madrid ha seguito, sulle orme di Barcellona che sui vetri posteriori delle automobili appiccica ancora l'asinello al posto del toro. Chiara allusione che con la tradizione spagnola non c'è nulla da spartire. Ma a perdere sono stati in tanti. Sono saltati posti di lavoro, introiti che arrivavano dal turismo.

C'è un minimo sindacale in Francia per la corrida: 17mila euro. Una cifra frutto di una dura negoziazione, diversi anni fa, fra i rappresentanti sindacali e il governo. Ma ovviamente non è solo il torero che incassa i soldi: di solito un torero di prima categoria ha un agente al quale va una percentuale dell'incasso. Oggi quasi tutti gli organizzatori, a meno che tu non sia un torero famoso, propongono il minimo sindacale, e poiché bisogna arrivare a 45 corride l'anno per avere la disoccupazione, e non è per niente facile, accettano tutti. Tolte le spese, dopo una corrida al torero rimangono in mano dai mille ai 2mila euro, ma c'è chi ha combattuto per 200 o 300 euro netti, praticamente un rimborso spese. È per questo che molti toreri oggi stanno cercando di rivendersi altrove. In Sud America, in Colombia ad esempio, dove la corrida è più selvaggia, dove la divisione con il pubblico praticamente non c'è.

C'è un immaginario comune sul torero, ci sono i romanzi di Hemingway e Sepulveda, i film di Almodovar, coraggiosi, seduttori, a sfidare il pericolo e la morte a ogni incontro. Poi c'è la vita reale, il precariato, le lotte sindacali. E anche da loro è cominciato negli ultimi anni un mercato nero. Come nella boxe. È un mercato ancora piccolo, ovviamente nascosto, gestito dai nuovi ricchi che negli ultimi anni si sono installati nella Francia meridionale. Si tratta di corride private, divertimenti per milionari all'interno dei propri possedimenti. Una versione aggiornata di tanti combattimenti clandestini, con annesse scommesse, puntate e conseguente giro d'affari. Le corride sono cambiate.

Gli uomini no.

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