Controcultura

Alla corte di Lucrezia e Isabella per imparare il ballo del potere

Il nuovo saggio di Alessandra Necci ricostruisce il mondo di intrighi, ferocia e grande bellezza nato dall'umanesimo

Alla corte di Lucrezia e Isabella per imparare il ballo del potere

Primo quadro. Luglio 1498, Lucrezia Borgia, figlia del Papa, e Alfonso D'Aragona, nipote del re di Napoli Ferdinando, si sposano. È uno dei rari casi in cui un matrimonio politico si trasforma anche in un colpo di fulmine. Lucrezia è radiosa in un abito di tela di Cambrai con grandi maniche cremisi, una cintura di perle, una blusa di seta tutta piena di gemme. Alfonso è affettuoso, gentile, passionale, sembra un cavaliere antico, di certo è bellissimo. Anche la festa che segue è meravigliosa. Tutti sono in maschera. C'è anche Cesare Borgia, detto il Valentino, il fratello della sposa. È il secondo a ballare con lei dopo Alfonso. Porta una complicata maschera da unicorno. L'animale è simbolo di purezza e lealtà.

Secondo quadro. Luglio 1500. Alfonso esce dal Vaticano per la porta sotto la Loggia della benedizione, è stato a cena dal Pontefice. Lo accompagnano uno dei suoi gentiluomini, Tommaso Albanese, e uno staffiere. Sulla gradinata sostano moltissimi pellegrini dormienti, come di norma. Ma di colpo in molti si alzano, spade alla mano. È un agguato mortale. Si batte Alfonso, spadaccino d'eccezione. Tommaso Albanese è una furia e protegge il suo signore. Ma quando Alfonso rientra in Vaticano è zuppo di sangue. Lo trasportano a braccia da Lucrezia che ha un mancamento. Appena si riprende, chiama tutti gli uomini fedeli che possano aiutarla. Si chiude nella Sala delle Sibille, ha già capito chi è stato il mandante. Cura Alfonso giorno e notte. Cucina lei stessa sul focolare per il ferito: teme il veleno. Ma non c'è scampo. Cesare Borgia adesso vuole alleati diversi: sta dalla parte dei francesi, non più degli Aragona. E vuole Lucrezia di nuovo libera. Vuol farne di nuovo merce di scambio matrimoniale, non è più tempo di vestirsi da unicorni. Nel pomeriggio del 18 agosto irrompe nella stanza Michelotto Corella con un gruppo di armati. Michelotto è l'uomo di fiducia di Cesare, ha ammazzato più gente del vaiolo. Le versioni divergono sulla presenza in quel momento di Lucrezia. Ma una cosa è sicura, Corella e i suoi soffocano Alfonso e finiscono il lavoro.

Lucrezia, una ragazza di vent'anni al suo secondo matrimonio, non sarà mai più la stessa. Vagherà per giorni tra febbre e svenimenti. Quando tornerà in sé capirà che l'unica via per una Borgia di essere libera dagli altri Borgia è essere più accorta e furba di loro. Usò il suo terzo matrimonio per sfuggire all'abbraccio mortale di padre e fratello. Fu così che giunse a Ferrara alla corte degli Este, come moglie di Alfonso I D'Este. Iniziò così la sua nuova vita, ma nessuno può sapere quante volte abbia ripensato all'altro Alfonso, alla sua morte cruenta.

I due affreschi, estratti dalla polvere del tempo, che abbiamo allineato qui li trovate nel volume di Alessandra Necci: Isabella e Lucrezia, le due cognate. Donne di potere e di corte nell'Italia del Rinascimento (Marsilio, pagg. 672, euro 19,50). E ne troverete anche molti altri perché la Necci, docente universitaria e finalista all'Acqui Storia con un suo precedente lavoro, Il diavolo zoppo e il suo compare, ha utilizzato le vicende, intrecciate, di due delle più potenti dame d'Italia per rivelare lo Zeitgeist dell'inizio del Cinquecento. Da un lato la già citata Lucrezia Borgia (1480-1519) che incarnò la bellezza e l'eleganza, nonostante la feroce leggenda nera che le venne cucita addosso. Dall'altro la meno famosa Isabella D'Este (1474-1539) che divenne Marchesa di Mantova sposando Francesco II Gonzaga.

La Marchesa Isabella, anzi la «Marchesana» come veniva chiamata da tutti, era per certi versi l'opposto di Lucrezia. Fredda, controllata, non certo bella come la cognata, ma con uno spessore culturale enorme, specie per gli standard delle donne dell'epoca. Soprattutto era capace di calcoli politici raffinatissimi. Fu lei la regista dei funambolismi che consentirono alla piccola Mantova di sopravvivere al cataclisma delle guerre d'Italia.

Nel raccontare il confronto a distanza tra queste due Signore del Rinascimento, che a volte vennero anche ai ferri corti e che usarono ogni mezzo per sopravvivere al loro tempo fastoso e crudele, il saggio regala scorci affascinanti. Soprattutto nei dettagli. Ci sono i gioielli usati come strumento di potere, le lettere dei dotti umanisti, le feste sfrenate e i drammi familiari. I colpi di genio da politiche consumate e i piccoli o grandi capricci di vanità a cui nessuna dama di potere poteva rinunciare.

Una storia al femminile che a tratti può ricordare le atmosfere di Rinascimento privato di Maria Bellonci, ma che si caratterizza per una aderenza netta alle fonti d'epoca e non romanza. Tanto, la realtà a volte supera la fantasia. Basti ricordare un personaggio sullo sfondo: Caterina Sforza, signora di Forlì. Alchimista e indomita combattente, resistette sino all'ultimo alle truppe dei francesi e dei Borgia nella fortezza di Ravaldino. L'avevano già messa sotto assedio una volta gli Orsi dopo averle ucciso il primo marito. Minacciarono anche di ucciderle i figli. Lei urlò dalle mura che avrebbe saputo vendicarli. Poi, si narra, sollevò le gonne davanti a tutti: «Impiccateli pure davanti a me, ho lo stampo per farne degli altri». Nessuno ebbe coraggio di toccarli.

Ma contro il Valentino capitolò anche lei.

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