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"Così la liquirizia ha fatto concorrenza alla Ferrari"

Presiede l'impresa di famiglia, nata nel 1731. E qualche anno fa ha fondato il museo dell'azienda, il più visitato in Italia dopo quello di Maranello

"Così la liquirizia ha fatto concorrenza alla Ferrari"

Dal 1731 produce una delle più gustose liquirizie del mondo. Per la legge del contrappasso, ovvero a tacere del nome, risulta d'una particolare dolcezza. È Amarelli, l'azienda di Rossano (Cosenza) presieduta da Pina Amarelli: l'unica donna Cavaliere del lavoro in Calabria. L'imprenditrice figura nel consiglio direttivo di diversi enti e vanta un lungo catalogo di medaglie al valore. Ha ricevuto il premio Bellisario, il premio Guggenheim per i musei aziendali e quello del ministero delle Attività Produttive per l'imprenditoria femminile, il premio speciale «Anima» per i 150 anni dell'Unità d'Italia 2014 e l'Italian Talent Award 2014.

Al Festival dell'Eccellenza al Femminile di Genova ha ricevuto il Premio Lady Truck. Cosa significa questo ulteriore riconoscimento?

«Un premio così poteva scaturire solo dalla fantasia femminile. La creatività e il pizzico di follia che contraddistingue noi donne, ci fa guardare lontano e realizzare idee speciali. E lo dimostriamo già quando decidiamo di imbarcarci nell'impresa della maternità».

Lady Truck premia chi ha saputo coniugare impresa a cultura. A lei si deve il Museo della Liquirizia «Giorgio Amarelli», dopo quello della Ferrari, il museo d'impresa più visitato d'Italia. Quali obiettivi si pone una struttura come questa?

«Raccontare chi siamo e documentare un'esperienza per noi normale, ma che di fatto è speciale. La nostra azienda ha tre secoli di vita, è inevitabile che noi la viviamo in un altro modo rispetto agli altri. Tutto il nostro ambiente è impregnato di determinati retaggi e atteggiamenti culturali. Le aspettative sono state comunque superate. Aldilà della soddisfazione personale, abbiamo avuto un risultato economico inatteso. Nonostante l'accesso sia gratuito, il museo ha creato ricavi pari a un milione di euro l'anno. E se calcoliamo che è aperto dal 2001».

Un milione grazie agli acquisti diretti?

«Esattamente. I visitatori sono i migliori clienti. Chi viene da noi, entra nella nostra storia e alla fine del percorso vuole portarsi a casa una porzione di questa storia».

A quanto ammontano i ricavi dell'Amarelli?

«Raggiungiamo i 4 milioni di euro all'anno. Il museo incide per il 25% sul fatturato globale».

A dimostrazione che lo sposalizio Cultura & Impresa funziona. Quanto è importante che le aziende si spendano per la cultura, la sostengano?

«È determinante. Ed è un argomento cruciale per le aziende. L'Art Bonus ha aiutato a sbloccare la situazione. Ora vorremmo allargare il principio a tutte le attività culturali e fare in modo che le aziende possano defiscalizzare gli importi anche quando operano nel privato».

Lei è vice presidente de «Les Hénokiens», l'associazione internazionale che riunisce le aziende familiari bicentenarie. Possiamo individuare un denominatore comune fra quelle italiane? C'è un qualcosa che le contrassegna rispetto alle straniere?

«Sì, ed è in positivo. Ci lamentiamo spesso del nostro Paese, ma nonostante tutti i suoi problemi ha ancora forti valori, penso a quello della famiglia. E questo dà alle nostre aziende una marcia in più».

Lei è nata Giuseppina Mengano e ha sposato il signor Amarelli entrando così a far parte di una famiglia che da tre secoli conduce un'azienda a conduzione familiare. È stata accolta subito o ha dovuto dimostrare di essere all'altezza ?

«Sono stata accettata subito. Devo ringraziare mio suocero che subito intuì la mia attitudine per la comunicazione. Erano gli anni Settanta, immaginate la situazione delle donne in Calabria. Lui invece capì il mio potenziale».

All'epoca lei era avvocato, giusto?

«Sì, vengo da una famiglia di avvocati, la propensione al diritto è nel nostro albero genealogico. Però tutto questo a me stava un poco stretto, infatti iniziai subito l'attività di giornalista pubblicista scrivendo di enogastronomia per il Gambero Rosso, poi rubriche e editoriali per alcuni quotidiani.

I suoi figli, però, non sono coinvolti in azienda.

«I miei figli sono stati educati ai valori dell'impresa e della famiglia. Tuttavia è stato subito chiarito che non c'era l'obbligo di entrare in azienda. Mio figlio è professore di Diritto penale, lo abbiamo coinvolto come consulente per le materie penali-societarie. Mia figlia è magistrato, quindi fa tutt'altro. Anche i nipoti hanno fatto scelte totalmente diverse: Cristiano, per dire, è un famoso cardiochirurgo. Solo mio nipote Fortunato aveva espresso la richiesta di impegnarsi in azienda. Così, una volta laureato, ha fatto studi specialistici per le strategie di gestione delle imprese famigliari. Ha studiato in Bocconi e poi a Chicago. Si è preparato a dovere».

Perché le aziende familiari hanno dinamiche proprie e quindi richiedono strategie ad hoc

«Bisogna essere accorti: se si privilegia troppo la famiglia si rischia di depauperare l'azienda. Se si trova la persona giusta e preparata bisogna sacrificare qualcosa della famiglia: non si può dare tutto a tutti. Non si va al timone delle aziende per investitura divina».

Cosa vuol dire essere imprenditori in una terra non facile come la Calabria?

«L'essenza dell'imprenditore non cambia, è sempre quella e prescinde dal luogo. È un visionario, uno che intuisce un progetto e lo vuole realizzare. In Calabria fare impresa aiuta la regione a uscire dal limbo, toglie spazio a forme di economia sotterranea o parallela».

È l'unica donna in Calabria ad essere stata insignita del titolo di Cavaliere del lavoro.

«Rovescio il concetto dicendo che questo dà il segnale che è possibile farcela».

Lei, però, è napoletana. Quando arrivò in Calabria venne colpita dall'immobilismo di questa terra. Oggi è cambiato qualcosa?

«Non quanto vorrei. Sicuramente la creazione dell'università ha cambiato qualcosa. Prima i giovani studiavano altrove e tendevano a non tornare. Il fatto che oggi possano completare gli studi qui, li rende più vicini al territorio. Ma c'è ancora molto da fare».

Avete 40 dipendenti. Tutti calabresi?

«Abbiamo collaboratori che si sono tramandati la professione di generazione in generazione. E alcuni sono emigranti ritornati in Italia».

Dove si formano i vostri dipendenti. Il mastro liquiriziaio, per esempio?

«Questa è una specializzazione che passa di padre in figlio, con una formazione ovviamente interna. Attualmente stiamo formando anche un paio di nostri giovani proprio per allargare le competenze e per avere maggiore e sicuro ricambio.

La sfida ultima di Amarelli?

«La nostra ultima sfida è stata affrontare il mercato attraverso l'e-commerce, un'avventura che si è rivelata subito vincente ed in crescita esponenziale».

Che difficoltà pone un'attività centrata su un monoprodotto?

«Non è facile stare su mercati sempre più competitivi con un unico prodotto, perciò da tempo abbiamo iniziato a diversificare l'offerta, affiancando alla liquirizia pura altre specialità come la liquirizia gommosa aromatizzata con anice, menta, violetta, arancia o limone, articoli di cioccolato e liquirizia, liquore e birra, pasta, tarallini, mandorle e sale sempre alla liquirizia e infine acqua di colonia e shampoo doccia, ancora una volta e, ovviamente, alla liquirizia».

La sua giornata tipo?

«Le mie giornate sono sempre molto piene, tra impegni aziendali in ufficio o in viaggio, consigli direttivi e consigli di amministrazione, organismi di vigilanza e ruoli associativi, senza dimenticare l'attenzione alla casa: particolarmente impegnativa visto che vivo in un palazzo a Rossano che fa parte delle dimore storiche. Fortunatamente ho la gioia di godere di bellissimi momenti familiari. Quando il tempo scarseggia e sono a Napoli cerco di accompagnare a scuola le mie tre deliziose nipotine (alle quali, a giorni, si aggiunge la quarta), il miglior modo per iniziare al meglio, alle solite 7.30, la mia giornata».

Prima di essere la signora Amarelli, che rapporto aveva con la liquirizia?

«Sarà stata una premonizione, non so, ma già quando ero alle scuole elementari chiedevo a mio padre, prima di entrare in classe, di acquistare una scatolina di liquirizia che consumavo durante le lezioni cercando di non far sentire il rumore dei pezzetti che estraevo piano piano, senza farmi notare».

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